Corriere della Sera, 5 novembre 2018
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Biografia di Carlo Guarienti in occasione di una sua mostra
Il titolo della mostra riprende una frase di Friedrich Nietzsche: L’arte ci serve per non morire di realtà. E così, a 95 anni (compiuti qualche giorno addietro), il conte veneto Carlo GUARIENTI di Canossa espone (sino al 25 novembre ) all’Accademia Albertina di Torino (città dove è nata la moglie, Guia Calvi di Bergolo, figlia di Jolanda di Savoia e nipote di Vittorio Emanuele III) una selezione di dipinti e sculture, a cura di Paola Gribaudo. Dal 1949 ad oggi: Paesaggio con cane – appunto del ’49 – guarda a Gregorio Sciltian, come alcuni dei primi lavori dell’artista. E c’è una ragione precisa: autodidatta, GUARIENTI ha una laurea in Medicina (come Burri), anche se non ha mai esercitato. La qual cosa, però, gli suggerisce, anche nell’arte, una sorta di pratica anatomica. La spinta parte, quando ha 15 anni, da un avo scultore, dal quale eredita un forno e un servitore che gli fa da assistente.
Il suo primo amore? L’affresco (Ricordo di de Chirico, non datato, è una «pittura su muro strappato», così come Sogno d’estate, del 2013). Trasferitosi dalla natìa Treviso a Verona, il giovane Carlo studia il Pisanello della basilica di Sant’Anastasia (San Giorgio e la principessa): materiali, composizione, cultura formale del tempo, struttura architettonica, citazioni, rimandi, eccetera. Vede così che i ritratti presi dal vero sono mischiati con figure copiate da pezzi provenienti da scavi d’epoca romana.
Solitamente ogni artista ha le sue «stagioni» (attribuitegli dai critici solo per comodità). Quelle di GUARIENTI? Quattro: partito come ritrattista alla Sciltian («Disegnava una puntina da disegno così perfetta da far venire la voglia di toglierla»), s’è confrontato col Surrealismo (Max Ernst, soprattutto), per passare ad una pittura fantastico-saviniana e planare, quindi, su una sorta di metafisica in cui non è estraneo un ritorno alla sezione aurea. Da qui, una sorta di astrattismo geometrico in cui la sua pittura fluttua da tempo.
Diverso, il discorso di GUARIENTI-scultore, che solo dal 2005 ha cominciato ad esporre «l’altra faccia della pittura» (che, infatti, gronda di colori). Componenti? Base di legno e ferri, cera sostituita da cartapesta (messa a macerare), colla, polvere di marmo. Quindi, si passa a plasmare le figure che paiono squamate come un pesce. Essiccato l’impasto, entra in funzione la fiamma ossidrica che dà il senso del «non finito». Et voilà! l’opera è pronta. Sempre con quel gioco dei rimandi che viene dalla tavolozza. Scorrono le tre versioni di Guia, eseguite in anni diversi (l’ultima è del 2013: «Riconosco la linea della fronte/ il profilo delle labbra./ Ne scruto il volto declinato./ Figura immobile/ fasciata nell’abito plissé/ stretto ai fianchi/ disciolta nei cristalli d’argento/ gialli di stagioni», canta Roberto Capuzzo in catalogo), gli autoritratti (di cui, in questi ultimi anni, GUARIENTI non si risparmia, anche sulla tavolozza, quasi in maniera ossessiva, per fermare il tempo. Il tempo va via è il titolo di un dipinto del 2010 e Il tempo vola del 2017).
Una rassegna, questa di Torino, che conferma le grandi doti di questo artista che, vicino al secolo, continua a sperimentare nella materia il suo naturale gioco di rimandi, di sensazioni riconoscibili, lontane, per il quale ricorrere all’amarcord diventa una soluzione. La memoria non tradisce, non inganna e la partita non si gioca col rimpianto ma col confronto, pur restando l’artista – come direbbe Carlo Bo – «fedele alle proprie ragioni iniziali».