Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  novembre 04 Domenica calendario

Sacrificati all’undicesima ora. Morire senza motivo nel 1918

«Carica, per la Patria!». Quante volte lo aveva gridato ai suoi Cavalleggeri d’Aquila il tenente colonnello Pietro Pezzi Siboni? E quel 4 novembre 1918, mentre dava l’ordine al gruppo squadroni aveva il cuore più pesante del solito? Erano le 14.40 di un lunedì piovoso, l’armistizio tra Italia e Impero austro-ungarico era stato firmato il giorno prima a Villa Giusti di Padova e mancavano venti minuti alle 15, l’ora fissata per la fine della guerra. Venti minuti e 300 metri al galoppo per prendere Paradiso di Pocenia, a Est del Tagliamento. Molti cavalleggeri del reggimento erano ragazzi del ’99, ancora venti minuti e sarebbero usciti vivi dall’orrore. Perché allora sacrificarli per occupare una sconosciuta borgata friulana? Gli strateghi del comando supremo volevano sfruttare la demoralizzazione del nemico per arrivare il più possibile vicino al vecchio confine, quello del 1915. Per questo l’avanguardia era stata costituita con cavalleria e bersaglieri, i reparti più rapidi e audaci.
I primi a cadere sono i bersaglieri, inchiodati in un fossato dal fuoco austriaco: quando vedono arrivare la cavalleria – poco prima delle 15 – segnalano il pericolo. Il capitano Ultimo Grilli, comandante di squadrone, risponde: «Io ho l’ordine di andare avanti». Quindi: «Carica, per la Patria!». I Cavalleggeri d’Aquila vanno verso il Paradiso di Pocenia e trovano l’inferno: un reparto di mitraglieri ungheresi. Il combattimento dura fino a quando dalla linea nemica sale un lungo squillo di tromba, il loro segnale per annunciare le 15, l’armistizio. Gli italiani usano un sistema più spettacolare: un aereo passa srotolando un tricolore e facendo ululare una sirena. 
Corpi per «coprire la nostra terra»Sul campo vengono raccolti i corpi di nove italiani. Conosciamo i loro nomi incisi sulla lapide di Paradiso. Sottotenente Alberto Riva di Villasanta, ufficiale dei bersaglieri, ucciso all’inizio dell’azione, verso le 13, ultima medaglia d’oro della Prima guerra mondiale; soldato Giovanni Architu; caporale Giulio Marchesini; sottotenenti di cavalleria Achille Balsamo di Loreto e Augusto Piersanti; cavalleggeri Carlo Sulla, Giovanni Quintavalli, Girolamo Schiavon e Giovanni Biancherini. Secondo le testimonianze, alle 15 si sentivano ancora colpi isolati, forse qualcuno sparato a bruciapelo per finire un cavallo ferito. Come distinguere in quella follia che chiudeva l’enorme assurdità della guerra l’ultimo caduto? Forse fu il vate Gabriele d’Annunzio a decidere, nella sua sintesi retorica, perché l’anno dopo arringando la folla a Roma prima dell’impresa di Fiume citò «Augusto Piersanti che volle morire per coprire del suo corpo e del suo amore la sua terra, qualche palmo più in là».
Una lapide al Paradiso, una medaglia, i versi di d’Annunzio. Nessun rimorso dei comandi per aver bruciato altre vite a guerra finita. Ragionavano così i generali della «guerra per porre fine alle guerre», che per anni avevano comandato a masse di uomini di uscire dalle trincee per conquistare pochi metri di terreno. 
L’Undicesima oraSul fronte occidentale, allungato dalla Francia al Belgio, dove il conflitto finì l’11 novembre 1918, l’ultimo giorno fu segnato da altre azioni senza umanità. L’armistizio era stato firmato alle 5 del mattino e i delegati francesi, britannici e tedeschi, nell’incontro decisivo in una carrozza ferroviaria a nord di Parigi, avevano deciso che sarebbe entrato in vigore alle 11: per dare tempo alle truppe di ricevere l’annuncio e forse ispirati dal simbolismo dell’«undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese». In quelle sei ore di quasi-tregua furono feriti o uccisi circa 11 mila soldati, più delle perdite del D-Day nel 1944, quando gli Alleati sbarcarono in Normandia.
L’ultimo colpo di cannoneLo storico americano Joseph E. Persico nel suo Eleventh Month, Eleventh Day, Eleventh Hour. Armistice Day, 1918 spiega che molte unità di artiglieria continuarono a fare fuoco, sia per smaltire le scorte di munizioni ed evitare di doversele trascinare dietro, sia per mantenere la pressione sul nemico. Gli ufficiali di artiglieria sanno fare i conti e quelli americani della batteria numero 4 della Us Navy, montata su un treno con le sue bocche da 35 centimetri, decisero di sparare l’ultimo proiettile nella zona di Verdun alle 10, 57 minuti e 30 secondi: il colpo cadde sulla prima linea tedesca subito prima delle 11, con immaginabile soddisfazione di chi aveva studiato la traiettoria. Furono azioni come questa che causarono in quelle sei ore di attesa 10.944 perdite, tra le quali 2.738 morti.
Trecento caduti per una doccia Ci fu un comandante di divisione americano che volle fare un regalo alla sua unità, sfinita dall’offensiva finale. Un bel bagno nella cittadina di Stenay ancora in mano ai tedeschi. Il generale Wright era stato informato che la guarnigione avversaria aveva latrine e docce in perfetto stato e ordinò di avanzare verso la località per prenderne possesso prima delle 11. «Quella decisione lunatica costò 300 perdite», scrive Persico. 
Il veterano quarantenne Dagli archivi emergono coincidenze degne del Settimo sigillo di Ingmar Bergman, film nel quale la Morte gioca una partita lunghissima con il cavaliere condannato. Il soldato semplice George Edwin Ellison dei Royal Irish Lancers alle 9.30 dell’11 novembre si trovava nei dintorni di Mons in Belgio, la stessa località dove era schierato nell’estate del 1914, all’inizio. Aveva compiuto quarant’anni e non era un coscritto, si era arruolato da ragazzo per uscire da una miniera di carbone di Leeds. Ellison, in Belgio e poi in Francia, in quattro anni aveva strisciato nelle prime trincee della guerra di posizione, aveva conosciuto l’incubo dei gas, l’angoscia della carneficina sulla Somme. Il contingente britannico perse un milione di uomini, Ellison era a pochi minuti dalla salvezza. Sarebbe tornato a casa a Leeds, avrebbe abbracciato la moglie Hannah e rivisto il figlio James, nato nel 1915. Dal bosco partì un colpo, uno solo: la Morte aveva dato scacco matto, aveva aspettato paziente a Mons. 
Il portaordini del rancioAlle 10.45 un altro soldato quarantenne, il francese Augustin Trébuchon, aveva ricevuto un incarico tranquillo: portare ai reparti sulla Mosa il messaggio che il rancio sarebbe arrivato alle 11.30, il primo pasto di pace. Un proiettile gli impedì di dare la notizia. Trébuchon è considerato l’ultimo caduto francese, però la sua lapide porta incisa la data 10/11/18. I generali francesi, vergognandosi per il fatto che tanti bravi poilus erano caduti assurdamente a pochi minuti dall’armistizio, decisero di truccare le date sulle lapidi: retrodatando la morte al 10 novembre.
Due minuti alla fineAlle 10.55 la pattuglia del canadese George Lawrence Price aveva finito una scaramuccia con i tedeschi vicino a Mons. Un cecchino centrò Price al petto, il medico annotò la morte alle 10.58. Ultimo caduto dell’Impero britannico. 
L’americano di origini tedescheNelle Argonne un battaglione americano fu mandato all’assalto contro un reparto tedesco che pure era informato dell’armistizio. Alle 10.59 i tedeschi spararono l’ultima scarica di fucileria, per salvarsi la vita. L’americano Henry Gunther cadde fulminato. Aveva 23 anni, era nato a Baltimora nel 1895 da una famiglia di immigrati dalla Germania, era stato promosso sergente e poi degradato per aver scritto a casa una lettera nella quale raccontava le condizioni miserabili delle trincee. Dicono che quella mattina si fosse esposto nell’attacco inutile per riscattarsi. Gunther è riconosciuto come l’ultimo caduto in azione della Grande guerra.
E poi, all’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese del 1918 calò il silenzio anche sul fronte occidentale. Il maggiore Keith Officer, australiano, ricordava così quel momento: «Ero seduto a un tavolo di una birreria di Le Cateau in Belgio con un collega scozzese che guardava il suo orologio e quando vennero le 11 disse: “Mi chiedo che cosa faremo dopo tutto questo”. Vicino c’era una postazione di mitragliatrici tedesche che fino all’ultimo aveva creato problemi ai nostri. Continuarono a sparare fino alle 11. E precisamente alle 11 un loro ufficiale uscì dalla trincea, si alzò diritto, si tolse l’elmetto e fece un inchino verso i britannici. Poi fece allineare i suoi uomini e li portò via a passo di marcia».