La Lettura, 4 novembre 2018
Franco Battiato, pittore
Sta male, è in fin di vita: la scorsa estate, su alcuni giornali e su tanti siti, alcuni avevano fatto circolare questa drammatica notizia. È davvero così? Lo abbiamo chiesto ad alcuni tra i più cari amici di Franco Battiato. Ci hanno confermato che il grande cantautore e musicista siciliano ha attraversato un periodo di salute piuttosto difficile. Ma ora sta meglio. E ha ricominciato a «parlare» affidandosi alla pittura. Da qualche settimana, ogni giorno replica la medesima liturgia, nella sua casa di Milo, alle pendici dell’Etna: appena sveglio, siede alla scrivania, legge qualche giornale; poi va al cavalletto e prende in mano i pennelli, dedicandosi, con calma e pazienza, ai suoi quadri. Un rito improntato alla lentezza. Un modo diverso di comunicare.
È una passione lontana, quella dell’arte. Le prime prove risalgono agli anni Novanta. Dipingere, per lui, è una forma di autoanalisi differita; e indica il bisogno di mettersi alla prova, di migliorarsi, di superare ostacoli forse invalicabili. Perciò egli ama definirsi non pittore ma «uomo che dipinge». Ha detto: «Nella pittura vedo tutti i miei difetti, e mi interessa migliorare». E ancora: «Una volta pensavo che la mia totale incapacità nel disegno dipendesse dalla mancanza di una naturale predisposizione, come nel caso di uno stonato che non riesce a emettere la stessa nota che ha in testa. Con il tempo, ho scoperto invece che avevo un’idea astratta, archetipica, dell’oggetto che osservavo: quello che mi mancava era la possibilità di coglierlo nella sua esattezza. Per analizzare questo genere di chiusura iniziai a dipingere, per pura sfida: una terapia riabilitativa».
Negli anni, la pittura è diventata qualcosa di diverso. Non un divertissement né un hobby. Non una pausa dal lavoro compositivo o dalle tournée. E neanche una distrazione. Ma una pratica coltivata con impegno e rigore. Un’esperienza approfondita con metodica ostinazione. Quasi ogni giorno. Come una preghiera.
Quando dipinge, Battiato appare lontano dal musicista che tutti conoscono, capace di rendere pop le istanze più spregiudicate e audaci dello sperimentalismo novecentesco. Dinanzi a noi è un pittore antico, che concepisce il suo mestiere come un mezzo per uscire dalla contemporaneità, per sottrarsi a certi miti «progressisti» oggi imperanti.
Nella memoria, diverse assonanze storico-artistiche: i mosaici bizantini, i capolavori dei primitivi senesi del XIII e del XVI secolo, le serigrafie delle celebrity di Andy Warhol. Sulle orme di questi modelli, Battiato – che a lungo ha firmato i quadri con lo pseudonimo di Süphan Barzani – esibisce una marcata distanza dai «dadaismi» novecenteschi, per elaborare tavole dorate e pitture a olio con terre e pigmenti duri, abitati da individui colti in pose austere e solenni. In questi momenti meditativi, appaiono anche sufi e dervisci che pregano. E, inoltre: tanti personaggi noti (Willem Dafoe, Elisabetta Sgarbi) ma soprattutto figure poco riconoscibili (come il sindaco di Milo e l’amica Daniela Madonia fermati nelle tele inedite pubblicate in questa pagina da «la Lettura»).
Per dare vita alla sua pinacoteca affettiva, Battiato tende a ripetere sempre gli stessi passaggi. Dapprima, chiede qualche foto-ritratto ad alcune persone: suoi compagni di vita. Poi, riscrive quei materiali. Nascono così opere che sembrano oscillare tra fisiognomica e metafisica. Per un verso, Battiato pensa la pittura come strumento di investigazione psicologica. Vuole comprendere la lingua misteriosa della psiche e decifrare i segni lasciati sul volto, comportandosi come l’astrologo intento a scrutare il cielo per leggere il destino del mondo. Perciò, in maniera consapevole, recupera la tradizione di quella sorta di dottrina semiotica che è la fisiognomica, cui, nel 1988, dedicò un’indimenticabile canzone: «Leggo dentro i tuoi occhi/ Da quante volte vivi/ Dal taglio della bocca/ Se sei disposto all’odio o all’indulgenza/ Nel tratto del tuo naso/ Se sei orgoglioso fiero oppure vile/ I drammi del tuo cuore/ Li leggo nelle mani/ Nelle loro falangi/ Dispendio o tirchieria/ Da come ridi e siedi/ So come fai l’amore/ Quando ti arrabbi/ Se propendi all’astio o all’onestà/ Per cose che non sai e non intendi/ Se sei presuntuoso o umile/ Negli archi delle unghie/ Se sei un puro un avido o un meschino/ (...) Vedo quando cammini/ Se sei borioso fragile o indifeso/ (...) Nei muscoli del collo e nelle orecchie/ Il tipo di tensioni e di chiusure/ Dal sesso e dal bacino/ Se sei più uomo o donna».
Molti artisti si sono lasciati influenzare da quest’antichissima scienza totalizzante, che anticipa psicologia e psicoanalisi: da Leonardo a Giorgione, da Lotto a Rembrandt, da Velázquez a Hogarth, da Géricault a van Gogh, fino a Pollock e Bacon. Si tratta di pittori accomunati dal bisogno di studiare i moti dell’animo partendo dai tratti del volto: «Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo», aveva scritto Leonardo.
Per un altro verso, Battiato, per riprendere una categoria critica di Deleuze e Guattari, effettua sofisticati processi di «viseificazione»: si concentra solo sui visi dei suoi «attori». Li isola dal contesto circostante. Li spoglia di ogni riferimento contingente. Li priva di qualsiasi eco di cronaca. Li carica di una profondità altra, ulteriore. Li conduce verso una dimensione spiritualistica. Fino a trasformarli in icone ascetiche, senza tempo. I suoi quadri vanno a comporre un polittico fatto di figure angeliche, pudiche, scolpite con colori accesi (e pop), quasi in attesa di un prodigio. Sagome isocefale, prive di oscillazioni psicologiche, mai colte di profilo né dipinte dal vero, segnate da una potente frontalità, che ricordano da vicino le silhouette ritratte negli affreschi ravennati.
Sulla soglia tra fisiognomica e metafisica, nascono così esercizi pittorici mistici ed esoterici. Che svelano uno dei tratti distintivi del talento di Battiato. Egli, scriveva Gesualdo Bufalino, è riuscito a risolvere «in termini di umana letizia il commercio quotidiano con il sacro: come di chi sente dentro di sé quietamente convivere immanenza e trascendenza e indugi sulla soglia del tempo con pacificato spavento, sentendosi alle labbra salire una puerile preghiera».