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 2018  novembre 04 Domenica calendario

Intervista a Milovan Farronato, responsabile del Padiglione Italia alla Biennale

«L’arte? La immagino come un lungo corridoio illuminato con tante porte spalancate da entrambi i lati, porte che talvolta potresti anche trovare socchiuse. Non credo che l’arte debba offrire di necessità una morale e neppure una risposta. Temo però di doverlo fare io, in quanto curatore». È questa l’idea dell’arte secondo Milovan Farronato (Borgonovo Val Tidone, Piacenza, 1973), primo curatore no gender conforming del Padiglione Italia della Biennale d’Arte di Venezia 2019 (11 maggio-24 novembre) con un curriculum inattaccabile: la direzione del Fiorucci Art Trust di Londra (città dove Farronato vive e lavora), della non-profitViafarini e del Documentation centre for visual art , entrambi a Milano. A Pompei, per un sopralluogo legato a un altro suo progetto, quello di Volcano Extravaganza a Stromboli, Farronato (giacca gialla color becco d’oca e abito nero, orecchini con fiore giallo vero, stivaletto tacco cinque) ha svelato a «la Lettura» il suo progetto d’arte.
Partiamo, allora, proprio dal suo ruolo, quello di curatore? 
«Facciamo un caso concreto: l’attuale Biennale di San Paolo si è inaugurata da un paio di mesi ed è stata da subito accusata di non essersi relazionata in alcuno modo con gli eventi politici, economici e sociali che stanno travolgendo il Brasile. Il curatore Gabriel Pérez-Barreiro è apparso totalmente disinteressato rispetto al momento storico: ha preferito piuttosto disquisire dell’arte sull’arte, offrire sue interpretazioni su ciò che è rimarcabile oggi e mettere in scena progetti indipendenti senza connessione alcuna tra loro. Ha parlato di frammentazione, di isolamento e della tendenza di interpretare la curatela come una manifestazione creativa. Libero di percorrere questa strada, ma di certo ha perso un’occasione per agire, per proporre un’azione più profonda, una riflessione richiesta, ma che tuttavia non può essere imposta. Certo, esistono vari livelli di aderenza e di metafore, ma credo che il ruolo dell’arte dovrebbe essere quello di aiutare a raggiungere un livello diverso di consapevolezza, di farci sentire più presenti, di darci la possibilità di scegliere». 
Quanto è importante la classicità nella sua visione del contemporaneo? 
«L’originale e la copia, l’archeologia del non-finito, le implicazioni politiche della scienza dell’archeologia sono attuali aree di investigazione per molti artisti, come Christodoulos Panayiotou. Il classico coesiste in molti musei con il moderno e contemporaneo, talvolta anche troppo. Un connubio di certo riuscito tra classico e contemporaneo è stata la recente mostra Pompei@Madre materia archeologica che ha dato vita a mirabolanti abbinamenti, felici incontri, voli pindarici tra presente e passato, reperti e sculture, dipinti e affreschi. D’altra parte nel saggio Perché leggere i classici Italo Calvino gia nell’81 segnalava quanto importante sia il contemporaneo per offrirci una rilettura del classico, complementari e non opposti nella sua visione dell’arte e della cultura. Per questo la classicità avrà un ruolo importante nel mio padiglione e non mi riferisco solo al lavoro degli artisti come Chiara Fumai».
Qual è secondo lei il ruolo dei collezionisti, dei mecenati che creano fondazioni per l’arte, dei grandi investitori? E qual è il ruolo del sistema pubblico, quello dei vari ministeri, nella promozione e nello sviluppo del contemporaneo? 
«Ognuno di questi attori ha un ruolo diverso ed è tenuto a fare la sua parte. Le istituzioni devono conservare, collezionare, archiviare e proporre un programma espositivo coerente e costante, come nel caso del Castello di Rivoli a Torino. Le fondazioni private invece, dovrebbero fare quello che le istituzioni non possono o non riescono. Il Fiorucci Art Trust, ad esempio, è nato per volontà della sua fondatrice Nicoletta Fiorucci con questa specifica intenzione, promuove l’arte contemporanea in modo non convenzionale. Questa è la prima volta che lavoro con e per un ministero, quindi forse dovreste rifarmi la domanda tra qualche mese. Per il momento posso dire, in tutta onestà, che la Direzione generale Arte e architettura contemporanee e Periferie urbane, diretta dall’architetto Federica Galloni, mi ha dato un grandioso benvenuto, accogliente e gratificante, e mi sento appoggiato e sostenuto». 
Le contaminazioni tra discipline e mezzi espressivi diversi, tra scienze e arte, sono sempre più frequenti: questo aiuta l’arte a trovare una dimensione più attuale? 
«Mi affascina il concetto di opera totale, Gesamtkunstwerk, utilizzato in Arte e rivoluzione nel 1849 da Richard Wagner che auspicava un teatro in cui convergessero musica, poesia, coreografie, letteratura e arti figurative. E mi interessa il movimento interdisciplinare Fluxus che negli anni Sessanta-Settanta coinvolse artisti, poeti, musicisti, compositori, architetti che volevano far sconfinare l’operare artistico nel flusso della vita quotidiana; e di certo lui, John Cage, che prediligeva il processo creativo al prodotto finito e che considerava il lavoro come interazione tra artista e pubblico. Penso anche ad Arte povera più azioni povere, l’evento voluto da Marcello Rumma che nell’ottobre del 1968 riunì per tre giorni artisti, creativi e intellettuali negli Antichi Arsenali di Amalfi, per un susseguirsi di installazioni, performance e dibattiti. Come curatore ho spesso cavalcato questi riferimenti. Con il Fiorucci Art Trust abbiamo sperimentato il nostro contributo in questo senso. Stromboli, dove progettiamo dal 2011 un festival d’arte contemporanea, ne è una manifestazione chiara: già popolato da opere e amato dagli artisti, abbiamo qui incentivato e supportato varie forme di collaborazione tra le arti».

Con quale spirito sta lavorando al Padiglione? 
«Non volendo anticipare troppo, risponderò con una metafora. Diciamo che se mi avesse chiesto a quale carta dei Tarocchi paragonerei il Padiglione Italia, le avrei risposto L’Appeso, Le Pendu, come interpretato da Alejandro Jodorowsky, a cui aggiungo considerazioni personali. La posizione sembra scomoda, ma l’Appeso è sereno e confidente. In equilibrio perfetto. È il simbolo della fiducia e dell’arrendevolezza, completamente passivo e senza potere deve rassegnare ogni sua volontà e convincersi che il destino gli sarà benevolo. E poiché si arrende alla forza della vita e seguirà la corrente, per questo, sarà salvo». 
Quando e come è nata la sua passione per l’arte? 
«La mente si veste e traveste continuamente, non ho ricordi specifici o speciali. Credo sia stato un rapporto di causa ed effetto tra propensione e dedizione, studi e interessi. Non credo si sia mai trattato di vocazione. Ricordo onestamente e altrettanto vagamente alcune letture speciali, la capacita di Giorgio Manganelli o Giovanni Villa di tradurre il registro sincronico della visione in quello diacronico della scrittura. Febbricitanti aggettivazioni, mirabolanti perifrasi per definire le pitture di Cosmè Tura, per esempio. La lunga descrizione del Mosè di Michelangelo di Sigmund Freud e il suo saggio sul perturbante. Descrivere un’opera è un lavoro importante e prezioso ancora prima dell’interpretazione. Forse, prima della visione, da studente è stata la lettura a suggestionarmi». 
Ci fa il nome di qualche artista o di qualche opera che vale la pena conoscere assolutamente?
«Ho qualche esitazione a rispondere a questa domanda a meno che non la consideriamo in senso dinamico. Oggi, nel 2018, a novembre, senza gerarchia, di getto, ma con ponderazione, segnalerei l’arazzo di Goshka Macuga Death of Marxism, women of all lands unite (2013) in cui il ruolo delle donne viene spostato da partecipanti politiche passive di una storia che le ha escluse, ad attive. Invece Concern, crush, desire (2011) di Nick Mauss è un ambiente, una stanza, un omaggio, un remake in materiali diversi di una stanza specifica di Christian Bérard, lo scenografo preferito da Cocteau, una cornice dove poter installare opere d’altri, generosa e inclusiva permette di coesistere e convivere con contributi altrui. Penso poi a Charlie don’t surf (1997) di Maurizio Cattelan, la scultura di un adolescente di spalle con le mani inchiodate da matite al banco di scuola: un monito, un’oppressione, l’ostracismo che non fa volare, un’altra forma di crocifissione. E poi non riesco a non pensare a quel volto di donna in un quadro del 1634 di Rembrandt van Rijn la cui definizione del soggetto è stata quanto mai travagliata. Che sia Artemisia che beve le ceneri del marito Mausolo, o Sofonisba che per sottrarsi agli invasori romani beve una coppa di veleno; o la più famosa Giuditta al banchetto di Oloferne. In ogni caso, chiunque essa sia, il dramma è già stato compiuto. Solo nel volto della donna e nella sua posa fiera è imprigionata l’introspezione psicologica e il mistero di quanto accaduto». 
Come immagina il futuro dell’arte? 
«L’arte ha un futuro, contrariamente a quanto sostenuto da Hegel, e da altri dopo di lui, che l’hanno più volte dichiarata morta. Non è mai stato facile vedere oltre il presente e anticipare il futuro, in nessun campo. Tantomeno nell’arte dove spesso l’interpretazione stessa del presente è aperta, complessa e variabile. Ma sono comunque sereno e fiducioso, perché la vedo abbastanza consapevole del passato e piuttosto attenta agli stimoli e alle suggestioni che le offre il presente». 
Milovan Farronato ha qualche altra passione oltre l’arte?
«Il contorsionismo, sia fisico che metaforico».