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 2018  novembre 04 Domenica calendario

«L’esorcista? Per me è soltanto un thriller sul mistero della fede». Intervista al regista Friedkin

«Non ho mai pensato che L’esorcista fosse un horror. Per me è un thriller soprannaturale sul mistero della fede. Mentre lo giravamo la sola cosa di cui eravamo consapevoli è che sarebbe stato disturbante. Non mi considero neanche un maestro del genere. Ci sono horror che amo, come quelli di Dario Argento, o Psycho, Alien, e pochi altri. Ma non mi urta che mi diano un’etichetta. Facciamo i film per chi li guarda, hanno diritto di farlo».
Ottantatré anni compiuti in agosto, felicemente sposato da quasi trenta con Sherry Lansing, la prima a conquistare la guida di uno studio, la Paramount, William Friedkin è il protagonista del documentario Friedkin Uncut di Francesco Zippel, presentato alla Mostra di Venezia (da domani in sala, poi su Sky Arte), mentre si celebrano i 45 anni dall’uscita del film con Linda Blair. Al telefono conferma il ritratto che emerge nel documentario, dove ai suoi racconti si incrociano quelli di amici e devoti, come Ellen Burstyn, Gina Gershon, Willem Dafoe, Wes Anderson, Zubin Metha, Quentin Tarantino, Juno Temple. Ironico, dissacratore, curioso di tutti e di tutto. Sopratutto di quello che gli altri non vedono.
Nella Hollywood degli anni ’70, dopo «Il braccio violento della legge», la chiamavano Hurricane Billy. Era veramente un uragano?
«Qualcuno intitolò un libro così. Credo la fama sia nata dal fatto che non ho mai avuto paura di litigare con i boss degli studios. Molti non avevano idea di come si fa un film». 
Con il suo primo film,  «The People vs Paul Crump», salvò un uomo della pena di morte. Immaginava che il cinema potesse arrivare a tanto?
«Conoscevo le accuse contro quest’uomo e avevo capito che era innocente: era stato picchiato perché confessasse un delitto che non aveva compiuto. Solo un’altra volta un mio film ha avuto un impatto altrettanto forte».
Quale?
«L’esorcista. In molti si sono riavvicinati alla fede dopo averlo visto. Ho ricevuto migliaia di lettere di persone che me lo raccontavano».
Da allora non ha smesso di occuparsi di esorcismi. Il cerchio si è chiuso con l’incontro con Padre Amorth, lo ha raccontato nel doc «The Devil and Father Amorth».
«Incontrarlo è stata una fortuna, la persona più spirituale che io abbia mai conosciuto. Lui certo credeva di avere a che fare con il diavolo, non nel senso di un essere ma di un concetto. Forse un giorno ci sarà un termine medico per definire le persone che pensano di essere possedute, e magari una cura. Io ancora non ho riposte, il conflitto tra bene e male mi affascina». 
Più di cinquant’anni di carriera. Rimpianti?
«Non aver girato più film. E non essere riuscito a farne uno con Steve McQueen o con Anna Magnani, Marcello Mastroianni, Jean Gabin. Non ci sono più attori come loro». 
Il più grande regista americano del presente?
«Kathryn Bigelow. Sceglie soggetti che altri ignorano, la sua maestria degli aspetti tecnici del cinema è unica. Su quella strada c’è Damien Chazelle. E amo anche Paolo Sorrentino, la serie The Young Pope è strepitosa».
Cosa ha pensato quando Zubin Mehta nel ’96 le offrì la regia di un’opera?
«Fu uno shock, ma la presi come una sfida. Ne ho fatte altre. L’ultima un’Aida per il Teatro regio di Torino».
È venerato come una leggenda vivente ma non le piace essere chiamato artista.
«Gli artisti sono Fellini, Fritz Lang, Buster Keaton. Ma l’amore pubblico mi commuove. Il mio premio è che i miei film siano ancora visti». 
A proposito di leggende, è vero che Michael Mann le offrì la parte di Hannibal Lecter nel suo «Manhunter»?
«Verissimo. Non ho capito perché, ma era serio, pensava io fossi l’immagine più vicina a Hannibal. Forse per lo stesso motivo per cui mi chiamavano Hurricane Billy. Ma se chiede a mia moglie e ai miei le confermeranno che non ho nulla del pazzo sanguinario».