Corriere della Sera, 4 novembre 2018
Il pianista Maxim Vengerov
A 17 anni Maxim Vengerov era il nuovo prodigio del violino: debuttava alla Scala diretto da Carlo Maria Giulini in Mendelssohn e per la prima volta affrontava il Concerto di Shostakovich con cui aprirà la nuova stagione della Filarmonica.
«Un brano che adoravo ma che solo studiando con Mstislav Rostropovich capii – racconta —. Slava mi aveva invitato a un suo festival e alla fine della prima prova mi disse: bravo, suoni bene, ora però dobbiamo raggiungere la stratosfera». Il racconto prosegue incalzante: «Mi impegnai per suonare ancora meglio, per rendere ancora più bello il mio suono; durante il Notturno e soprattutto la Passacaglia, che del concerto è il vertice estetico e spirituale, ebbi la sensazione inebriante di suonare benissimo. Ma guardando in faccia Rostropovich non mi sembrava convinto; si complimentò per il suono, ma lo definì generico: mi disse che non era adeguato né a quello che stava vivendo Shostakovich mentre lo componeva né al senso che voleva dare a quelle note».
Rostropovich non era stato solo un sodale artistico di Shostakovich: «Come con Britten e Prokofiev, ne era stato amico e così mi poteva raccontare aneddoti, segreti, notti passate con lui a parlare di musica e della vita: storie di cui solo lui poteva essere testimone. I suoi racconti illuminavano ogni nota e mi facevano capire come vi si specchiasse la storia tragica del compositore e del popolo russo: la Passacaglia nasce dalla frustrazione, dalla sofferenza, dalla paura che dominavano in Russia nel periodo del Regime; Shostakovich non poté neppure pubblicare questo Concerto fino alla morte di Stalin perché in quegli anni c’era una censura strettissima e la sua musica era guardata con sospetto». Da Rostropovich ha imparato un metodo: «Mi spingeva a immedesimarmi con l’autore, a pensare con la sua testa, a guardare le cose e le note con i suoi occhi; con Slava era un confronto umano e spirituale prima ancora che tecnico e musicale».
Un confronto che si allargava all’intera storia musicale: «Eravamo a Londra per incidere il primo Concerto di Shostakovich assieme a quello di Prokofiev, tra una sessione e l’altra mangiavamo assieme; una volta gli confessai, quasi vergognandomi, di considerare il Primo di Shostakovich migliore, più “avanti” del Concerto di Beethoven. Lui sorrise e rispose: caro Maxim, è la storia della musica che va avanti, Shostakovich è il Beethoven del ventesimo secolo perché prosegue l’azione di rinnovamento e allargamento degli orizzonti intrapresa da Beethoven; la sua musica è più forte e travolgente perché la musica del nostro secolo può avere più risorse e quindi più forza; basta pensare a come erano le orchestre duecento anni fa».
Oltre ai dialoghi con Rostropovich o altri musicisti come Daniel Barenboim e Riccardo Chailly («ha una capacità analitica incredibile, sa affondare tra le pieghe di una partitura come pochissimi»), a segnare la carriera di Vengerov è stato un infortunio alla spalla che nel 2007 lo costrinse ad abbandonare lo strumento per quattro anni, proprio quando ne era l’icona mondiale: a dicembre 2006 aveva incantato la Scala suonando con la Filarmonica Beethoven e poi il doppio concerto di Bach assieme a Leonidas Kavakos. «All’inizio non fu facile; per quattro mesi dopo l’operazione non potei suonare, nonostante le cure e la fisioterapia; poi iniziai per dieci minuti, poi quindici: suonare divenne il modo di scaricare le tensioni, riuscivo a imbracciare il violino solo restando rilassato e per farlo dovetti cambiare tutto, da come tenevo l’archetto a come inclinavo il collo sulla mentoniera. Fu un esercizio di pazienza e autocontrollo impressionante: riuscii a suonare a lungo solo quando imparai a controllare la paura». Oggi però vede quegli anni in un’altra prospettiva: «Mi sono stati utili innanzitutto per riposarmi; solo dopo due anni il palco iniziò a mancarmi davvero. E mi permise di studiare direzione d’orchestra, un sogno a lungo coltivato ma che i ritmi del concertismo non mi avevano mai permesso di realizzare seriamente. Guardare da una prospettiva diversa i brani mi ha aiutato ad approfondire le interpretazioni anche come solista».