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 2018  novembre 04 Domenica calendario

Lunga intervista a Elena Cattaneo

Elena Cattaneo non è arrabbiata, neanche un po’. Nonostante sia una scienziata, una scienziata (anche) in Parlamento in un momento storico in cui la post-verità va raccontando in giro di aver gambizzato persino il pensiero scientifico. Nemmeno felice o ottimista sono termini corretti per descriverla mentre ti addenta gli occhi con lo sguardo e non li molla finché non ha finito il concetto. 
Si agita sulla sedia, si gira, cercando di ricordare una frase del padre; sorride, quando spiega il potenziale delle mutazioni genetiche; si commuove, parlando dell’inizio atipico del suo matrimonio. Urla, ogni tanto, ma sempre di gioia, di stupore. Non il suo, ma quello che vuole suscitare nell’interlocutore: «La scienza è una roba da Sherlock Holmes». Affidandosi alle sue parole: è «impossibile contenerla fisicamente». Lei le usa per descrivere la reazione all’email con cui le annunciarono, nel giugno del 2017, la vittoria di un bando europeo per studiare la malattia di Huntington.
«Gioia totale, non riuscivo a stare ferma; ero in treno, stavo tornando da Padova. Nell’oggetto della mail c’era solo il codice del progetto. Io non lo ricordavo, ovviamente: passano mesi da quando si presenta la propria domanda per sottoporla alla valutazione di terzi indipendenti e competenti. Il metodo scientifico funziona così ed è bellissimo, sa? Lascia che siano gli altri a decidere quanto è forte la tua conquista. E possono smentirti in qualunque altro momento. Ogni volta che non lo fanno vuol dire che l’idea si sta rafforzando e che il dato è probabilisticamente più certo».
Perché studia una malattia rara?
«Mi hanno convinto una persona e una frase: “Let’s go to Venezuela”. Nancy Wexler la pronunciò al Massachusetts Institute of Technology di Boston, quando io ero ancora una giovane ricercatrice. Stava raccontando come aveva convinto negli anni ’80 un gruppo di scienziati ad andare in Venezuela, dove c’erano e ci sono tuttora villaggi in cui i malati arrivano a essere un terzo degli abitanti. Wexler viene da famiglia Huntington, rischia di ammalarsi. Mi aveva colpito la sua umanità, i suoi capelli biondi, color oro, lunghissimi. Mi ha fatto capire quanto può fare il coraggio di una singola persona, di una donna. Il coraggio di osare».
Un altro modello e un’altra frase?
«Rita Levi Montalcini. Scriveva alla mamma: “Io sono qui a fare cose che non interessano a nessuno se non a una piccola cerchia di colleghi”. Pensi all’umiltà e alla storia incredibile di questa donna. Non ha permesso a nessuno di interferire con la sua passione, è andata avanti in qualsiasi modo, cacciandosi in un angolo di casa sua a studiare gli embrioni di pollo perché voleva capire come il cervello comandava i muscoli periferici. Proprio in questi giorni l’Aifa ha autorizzato il trattamento di un farmaco basato sull’Ngf (nerve growth factor, il fattore di crescita dei neuroni, ndr), grazie al quale cui Rita Levi Montalcini ha vinto il Nobel. Quante cose si possono fare quando si è ispirati positivamente? Quando si è lasciati liberi di appassionarsi? Ci sarà sempre qualcuno che cercherà di comprimere questa libertà. Ma l’uomo è incomprimibile nella sua voglia di conoscere e di muoversi».
Capita che sia la chiesa a provare a fermare la voglia di conoscere e di muoversi della scienza. Lei è cattolica, come lo affronta?
«La religione è dogmatica, la scienza mira a buttare giù i dogmi. Se il dogma ferma la scienza io lo contesto».
Lo ha fatto con le staminali embrionali.
«Ho deciso che lavorarci era etico. Mira al bene dell’umanità, quindi non farlo non sarebbe etico. Perché il non fare non è un atteggiamento eticamente neutro: sarei responsabile di un danno. In laboratorio guardo quelle cellule che arrivano da embrioni soprannumerari e mi rendo conto che per la chiesa cattolica e per una parte della società quell’embrione è una persona e distruggerlo è equiparabile a un assassinio, ma ci sono altre filosofie. C’è la scienza».
Quindi, per lei la religione cos’è?
«Posso dirle cosa non è. Non è una valigetta da prendere e portare in giro chiusa tutta la vita. La devi aprire, al suo interno ci sono mille pensieri e azioni da considerare. Per me quelle cellule sono talenti, non posso lasciarle sotto terra. Il cammino di ognuno di noi è caratterizzato da scelte di questo genere: fare o non fare. Credo sia importante avere un foglio in cui scrivere i tuoi sì e i tuoi no». 
Torniamo a Boston: stava facendo il dottorato ed è andata a studiare al Mit. In passato, descrivendolo, ha collegato quel periodo a un sentimento di paura. Di cosa?
«Dell’ignoto. Erano gli anni ’90. Mi trovavo per la prima volta da sola. E ci sarei rimasta per tre anni, nonostante all’inizio ne fosse previsto uno solo. Credo di aver avuto bisogno di essere sicura di non aver problemi in più: per questo con mio marito abbiamo deciso di investire i pochi soldi messi via in quegli anni, soprattutto i suoi, per affittare l’appartamento in cui avrei vissuto in centro, al Prudential Center. Non potevo permettermi di avere il timore di rientrare a casa di notte». 
Vi eravate appena sposati.
«La mia scelta di partire, di iniziare quell’avventura, è stata naturale per entrambi, nonostante non avessimo idea di dove mi avrebbe portato. Era il mio sogno, ma la felicità era anche sua. C’era anche l’orgoglio, credo (si ferma per qualche secondo, commossa, ndr), di sapermi lì, a migliaia di chilometri, a fare qualcosa di importante. C’è tanto dietro, sa? C’è quella complicità, quella scialuppa familiare. Le ho sempre avute intorno a mi hanno aiutata negli anni». 
Oggi di cosa ha paura?
«Di niente, proprio di niente. Ecco forse solo di non mettere a frutto tutte le fortune che ho avuto. Di arrivare alla fine e pensare “potevo fare questo e non l’ho fatto”». 
Mi parla di suo padre?
«Mi ha trasmesso il rispetto per le istituzioni, ancora adesso dice di sentirsi un uomo Fiat. Io mi sento parte di un’istituzione, l’Università Statale di Milano, e considero il Parlamento un luogo sacro».
Come ha reagito quando gli ha comunicato di essere stata nominata senatrice a vita?
«Era in pigiama, sul divano. Appena ho nominato il presidente Napolitano gli si sono inumiditi gli occhi. Poi si è messo le mani nei capelli e ha detto “Oh Dio Elena, cosa mi stai dicendo, cosa mi stai dicendo”». 
E i suoi figli?
«Marco si è stupito. Francesca, che era già più grandicella e in grado di capire, è scoppiata in lacrime. Felice e forse un po’ spaventata». 
La sua attività si svolge soprattutto in laboratorio. Che rapporto ha con i malati?
«Facciamo riunioni periodiche con loro. Non è facile comunicare gli avanzamenti della ricerca quando ancora non c’è una cura: del gene Huntington abbiamo capito che l’evoluzione ha probabilmente avuto un ruolo nel consentire l’aumento del numero di Cag (una sequenza interna al gene, ndr), portando l’uomo vicino al valore di chi ha la mutazione (oltre 35, ndr). Ci stiamo quindi chiedendo se la malattia non sia il risultato di un esperimento – che i malati pagano per l’intera umanità – dell’evoluzione che mira ad allungare quel tratto perché dà beneficio. Qualche mese fa, la moglie di un malato 40enne mi ha detto che il marito, dopo aver ascoltato questa spiegazione, era euforico e si era convinto di essere più intelligente di lei. In fondo abbiamo tutti bisogno di capire perché». 
Parlando di vaccini, la ministra della Salute Grillo aveva detto al Corriere: «Non puoi illudere la gente che non morirà nessuno (di morbillo, ndr). Dobbiamo essere realisti».
«Il realismo consiste nel guardare i fatti della scienza, l’unica che può dire cosa serve in materia di vaccinazioni e sanità pubblica. Grazie ai vaccini si salveranno 25 milioni di persone nei prossimi dieci anni. Non ribadirlo vuol dire essere complici di una comunicazione che mira a confondere». 
Adesso in discussione in commissione Sanità al Senato c’è il disegno di legge sui vaccini.
«L’orizzonte è cupo e indefinito. Il concetto di “obbligo flessibile” sembra poco conciliabile con i tempi epidemiologici e anche con ciò che insegna la storia: un’epidemia impiega diversi mesi, talvolta anni, prima di spegnersi. Ecco perché servono strumenti per prevenirle».