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 2018  novembre 04 Domenica calendario

Erano troppi gli abeti rossi amati da Rigoni Stern

Immensamente più forte e rabbioso del «vento Matteo» narrato ne Il segreto del Bosco Vecchio da Dino Buzzati («tutti ne avevano grande terrore. Quando si avvicinava, gli uccelli smettevano di cantare, le lepri, gli scoiattoli, le marmotte e i conigli selvatici si rintanavano, le vacche emettevano lunghi muggiti...»), il vento furente di lunedì sulle montagne venete ha lasciato devastazioni apocalittiche. 
Non trova altre parole, il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, per descrivere lo scenario di vaste aree prealpine dagli altipiani al Trentino alla Carnia: «Situazione apocalittica, boschi spazzati via, strade devastate, tralicci piegati come fuscelli». Certo, appena hanno potuto uscir di casa, tra case scoperchiate e tetti volati via e alberi sparpagliati a terra come grissini, Giorgio e Giuliano e Giovanni e Thomas e sua moglie Mara, invece che invocare l’arrivo degli elicotteri, dei caterpillar o dell’esercito erano già fuori con le motoseghe per liberare la strada che dalla contrada di Caracoi (Rocca Pietore) cala a valle. Forse trecento abeti rossi segati, agganciati col «zapìn» e rimossi. In cinque. Fino all’arrivo dei primi soccorsi. 
E con loro sono accorsi centinaia e migliaia di volontari. Da tutta Italia. Prova formidabile di professionalità, di dedizione, di generosità. Un incoraggiamento ad affrontare un disastro mai visto. Che chiederà molti soldi («forse un miliardo, ipotizza Luca Zaia»), molti anni, molte fatiche. 
Decine di migliaia di persone senza elettricità, senza acqua, senza collegamenti telefonici. Ponti crollati. Strade franate. Case e tabià danneggiati. Enormi ammassi di pietre e sassi scivolati a valle. Torrenti e fiumi in piena stracolmi di alberi alla deriva. Laghi e bacini coperti da distese di tronchi di abeti rossi scortecciati, come nel caso della diga nel Comelico. E sullo sfondo l’incubo d’una stagione sciistica con le piste e gli impianti qua e là rovinati proprio alla vigilia dell’apertura delle funivie.
Certo non si è trattato di un fenomeno unico al mondo. Basti ricordare la «Tempesta Lothar» che nel ‘99 colpì l’Europa centrale causando 137 morti e abbattendo milioni di alberi dalla Francia alla Foresta Nera tedesca. O le distruzioni del 2015 in Toscana fatte da venti a 209 chilometri orari. Tutta colpa della Natura? In larga parte sì. Ma non solo.
Mario Rigoni Stern, i cui boschi asiaghesi sono stati ora devastati dalla tempesta, amava il peccio, o abete rosso: «È l’albero che è sempre stato presente e mi accompagna nella vita. Nella casa dove sono nato e ho trascorso la mia giovinezza, i mobili, le suppellettili, i pavimenti, le scale, le grandi e geometriche capriate del tetto, tutto era stato ricavato dai pecci dei nostri boschi: erano alberi feriti dalla guerra che per necessità di coltura, tra il 1919 e il 1922, si dovette abbattere. Da ragazzi, alla festa degli alberi, erano sempre piantine di peccio che mettevamo a dimora nelle ampie chiarie causate dai combattimenti; come sempre di peccio erano centinaia di migliaia le piantine che i miei compaesani piantavano appena la neve liberava il terreno». 
Lui stesso però, già ventisette anni fa, riconobbe che dopo l’annientamento dei boschi dovuto alla Grande Guerra, «fu un errore impiantare boschi puri di peccio: la monospecie e la coetaneità hanno un equilibrio molto fragile perché parassiti di ogni genere, malattie fungine, insetti e inclemenze stagionali possono in breve tempo rendere vani lavoro e capitale».
Vale per l’Altopiano dei Sette Comuni, spiega Marco Borghetti, uno dei massimi esperti italiani, docente di silvicoltura ed ecologia forestale, ma vale anche per gran parte dei boschi demoliti: «È bellissimo l’abete rosso. Bellissimo. È un albero che può arrivare a 48 metri d’altezza ma riesce a crescere, grazie a radici che non affondano troppo, anche su “suoli sottili”, rocciosi, con poco spessore. Non ha le radici del larice, però. E quando viene giù, magari in un bosco molto folto e poco curato o addirittura lasciato a se stesso da anni, può abbattere uno sull’altro i pecci più vicini. È un problema, aver troppi abeti rossi, tutti abeti rossi».
«Chissà che i boschi che saranno ripiantati siano diversi: non solo pecci ma più larici, faggi, aceri, magari ciliegi selvatici», spera Daniele Zovi, generale della Forestale, autore di Alberi sapienti, antiche foreste dove scrive delle piante non come oggetti ma come «esseri sensibili che comunicano fra di loro». Esseri capaci di provar dolore: «Cos’è, l’odore della resina di questi giorni se non un urlo di dolore?»
Come ricorda Rigoni Stern in Arboreto selvatico, l’albero ha sempre «esercitato sugli uomini sensazioni di mistero e di sacro e il bosco è stato il primo luogo di preghiera». Tanto che Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, dice che «non meno degli Dei, non meno dei simulacri d’oro e d’argento, si adoravano gli alberi maestosi delle foreste». Lo sapevano, i nostri vecchi che si prendevano cura dei boschi dal Pollino alla Garfagnana, dalla Mesola al Cadore: i boschi dovevano avere un equilibrio. 
E più ancora lo sapeva la Serenissima Repubblica, la cui vita stessa dipendeva da quei boschi. Per le palafitte su cui posa Venezia, per il marginamento delle isole protette da fittissime palizzate, per la legna delle fornaci di Murano, per l’arsenale che ai tempi in cui era il più grande cantiere navale del mondo e divorava abeti (per gli alberi) e roveri (per l’«anima» delle navi) e faggi (per i remi) e querce al punto che Iseppo Paulini, compilò nel 1608 perfino un manuale illustrato per mostrare come le piante vanno potate e come il diboscamento vada fatto per settori, creando un ciclo continuo che permetta la salvaguardia della foresta. 
E guai a chi attentava a questo equilibrio perché, dice un documento del Seicento, «el dito desboscar è causa manifesta del far atterrar questa nostra laguna, non avendo le pioge et altra inundation alcun ritegno ne obstaculo, come haveano da essi boschi, a confluir in esse lagune». Chi segava alberi senza permesso finiva per anni «in una galea de condanati a vogar il remo con ferri ai piedi». 
E tutto per evitare nuove inondazioni come quella del 1686 ricordata in una poesia: «Torna, amigo, el deluvio universal / piova continua e l’aqua sempre cresse / Venessia è deventada un gran canal / dove i cocai va a becolar el pesse».