La Stampa, 4 novembre 2018
L’ultimo round di Christian Daghio
Il Rangsit international stadium di Pathum Thani è un capannone con la statua posticcia d’un leone dorato all’ingresso, un night come propaggine e un grappolo di condomini scalcinati a fianco. Il 26 ottobre Christian Daghio lo ha raggiunto partendo dal suo centro training di Pattaya, dove si allenano atleti di tutto il mondo, ha salutato con un occhiolino la figlia piccola e la compagna.
Christian ha 49 anni, è un mostro sacro del Muay thai, la boxe thailandese che oltre vent’anni fa l’ha spinto a vivere in Asia e però si è buttato pure nel pugilato classico, categoria mediomassimi per la federazione Wbf, una delle più laterali. Un altro titolo può comunque rendere, e chi vive combattendo sa che bisogna essere previdenti nonostante le sette vittorie mondiali proprio nel Muay thai, una carriera infinita segnata da 186 incontri disputati e in gran parte dominati.
«Sono stato il primo»
Christian è un italiano di Carpi, nel Modenese, la testa e i pugni e le gambe velocissime sul ring, il contrappunto d’uno sguardo conciliante quando parla fissando l’interlocutore, incastonato fra le cicatrici e i gonfiori che ai pugili non cancelli mai. «Quando mi sono trasferito in Thailandia vent’anni fa (il primo ammesso in quella disciplina, ndr) nemmeno mi prendevano in considerazione. Nessuno pensava che un italiano avrebbe potuto fare del combattimento uno stile di vita, primeggiando grazie allo stato mentale che ti permette di tenere fuori ogni cosa, che ti lascia assorbire completamente».
Lo diceva sorridendo durante un meeting a Milano, fiero perché il Kombat Group che aveva imbastito nel 2005 in una specie di rudere, sempre a Pattaya, s’era trasformato davvero in un centro d’eccellenza «immerso nel verde, di fronte a un lago. E non immaginavano che potessimo diventare bravi come loro, eh no».
L’orgoglio di chi s’impone negli sport poveri lo fa rialzare come una molla, alla dodicesima ripresa di quest’estenuante battaglia al Ramsit. Ai punti è ancora avanti, ma una sequenza di cinque bordate l’ha fatto vacillare e poi franare. Il Christian Daghio di stasera è un po’ stempiato, i tatuaggi un pelo sbiaditi e per quanto la lotta sia il suo pane stona il confronto fra le date di nascita dei contendenti: 4 aprile 1969 l’italiano, 28 aprile 1992 il suo rivale locale Don Parueang, con l’ulteriore stranezza che il più vecchio s’è convertito al pugilato nel 2015, il più giovane nel 2011. Christian era fermo da dodici mesi, il titolo asiatico dei mediomassimi Wbf di nuovo in palio sebbene l’ultimo detentore fosse stato il campione di Carpi: aveva messo ko un ragazzo del posto la sera di Ferragosto 2017, poi gli acciacchi rattoppati in fretta e la convinzione che la carta d’identità non sarebbe stato un problema neppure stavolta, mentre sua zia Giorgina lo pregava di non farlo: «L’anno scorso era tornato in Emilia (era spesso la stella delle serate organizzate al Casanova Club di Modena, Muay thai di fronte a una piscina perché Daghio era semplicemente eclettico, ndr), gli avevamo detto di smetterla e di dedicarsi solo agli allenamenti. Inutile, non ci sentiva».
A 30 secondi dal gong
Alla dodicesima da bordo ring si sbraitano perché bisognerebbe fermarsi e il riflesso di Christian anticipa tutti. Ma la consapevolezza di quel che s’è fatto - «sono stato il primo italiano a entrare al Lumpinee di Bangkok», arena culto del Muay thai - non basta più, neppure il viatico di 31 vittorie su 31 incontri in questo spicchio un po’ periferico della boxe internazionale. Don Parueang colpisce e Christian Daghio va per la prima volta davvero al tappeto, lo sguardo spento. Non si rialza e il ricovero in ospedale è un tentativo disperato in partenza, venerdì sera spiegano ai familiari che non respira più.
Fabrizio è il fratello che gli faceva da manager a distanza, è rimasto in Italia accanto alla madre Angela mentre il padre Silvio e l’altro fratello Simone sono partiti per i funerali e la sepoltura in Thailandia: «Diceva che avrebbe voluto combattere fino a ottant’anni ed è morto come voleva morire. Non ho rimpianti, è stato un incontro leale e lui era fatto così. Il suo Kombat Group resterà aperto, manterremo il centro a Pattaya: lo facciamo per la sua bimba di 5 anni e per i 40 lavoratori».
Mancavano trenta secondi al gong, Christian Daghio era in vantaggio e la stava sfangando a ridosso dei cinquant’anni.