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 2018  novembre 04 Domenica calendario

Intervista a René de Ceccatty

Dovremmo essere grati alle persone che ci amano, che disinteressatamente curano ciò che un tempo siamo stati. Non accade spesso, ma quando succede è bene capire cosa li ha mossi. Chi conosce ad esempio René de Ceccatty che ha tradotto e raccontato il meglio della nostra grande letteratura? Qualche scrittore, certo, che gli è riconoscente per il lavoro svolto. Qualche passante che ha goduto dei suoi racconti. Ma l’elenco non va molto oltre. Incontro quest’uomo di natura mite e gentile a Ravenna, dove la società dantesca italiana gli ha dato un riconoscimento per il suo lavoro straordinario su Dante: ha tradotto e pubblicato l’anno scorso la Divina Commedia (Points) e il Canzoniere di Petrarca (Gallimard). Due momenti della nostra storia letteraria che in Francia hanno avuto un’eccellente accoglienza. De Ceccatty è anche traduttore dal giapponese. Vive tra Parigi e l’Oriente, e passa periodi dell’anno a Montpellier dove ancora risiede la vecchia madre: «Non sono nato nel sud della Francia, ma a Tunisi», precisa, «e l’amore per l’italiano è grazie a una bambinaia che mi parlava nella vostra lingua e mi leggeva le vostre favole. Avevo 12 anni quando giunsi la prima volta in Italia».
Che occasione fu quella?
«Piuttosto insolita. Andai in pellegrinaggio a Torino, in occasione di una ricorrenza per San Domenico Savio. La cosa buffa fu che non essendo cattolici, i miei genitori vissero la mia fede come una stravaganza. In realtà, forse inconsapevolmente, mi radicavo nella più potente e autorevole delle tradizioni».
Di cui Dante è certamente un’espressione complessa e contraddittoria.
«Il suo sguardo sulla teologia è profondo quanto i richiami filosofici. Ma la Commedia non è un’opera religiosa. È intrisa di violenza e di conflitti insanabili. Di visioni terribili e straordinarie».
Esistevano diverse traduzioni dal francese. Forse l’ultima è quella di Jacqueline Risset. Perché affrontarne una nuova?
«Volevo dare al lettore la sensazione di non smarrirsi dentro eccessive dispute filologiche. Avevo letto Dante da ragazzo privilegiando la musicalità al senso. In seguito tradussi alcuni canti dell’Orlando furioso e Leopardi. Quando giunsi a Dante capii che se volevo tradurlo dovevo trovare una lingua moderna». In qualche modo tradirlo.«Ogni traduzione nasconde un grado più o meno forte di arbitrarietà. Per me era fondamentale ricreare un ritmo. Lei citava la Risset che nel tradurre la Commedia ha fatto una grande opera di conservazione. Mentre il mio è un lavoro più spontaneo. Ho cercato di rendere esplicito il testo. Portarlo non allo studioso ma al lettore francese senza che questi dovesse cadere nello sconforto di una materia ostica e a tratti inaccessibile».
Da dove le è giunta la spinta per affrontare la “Commedia”?
«Avevo già tradotto Il Convivio e le Rime e a un certo punto mi sono reso conto che senza Dante non si capirebbero alcune punte della letteratura italiana. Penso ad esempio a Pasolini la cui opera in parte discende dal ritmo della lingua di Dante».
In che rapporti è stato con Pasolini?
«Non l’ho conosciuto. Ho tradotto alcuni suoi scritti, tra cui Petrolio. Gli ho anche dedicato una biografia. E sempre a proposito di Petrolio, che uscì dopo la sua morte, fu Alberto Moravia a parlarmene per primo. Mi disse che aveva ricevuto il manoscritto e che la prima impressione fu la somiglianza con la commedia dantesca. Ma il libro non lo convinceva del tutto, troppo diverso da tutto quanto Pier Paolo aveva scritto fino a quel momento».

Le sembrò un giudizio inadeguato?

«Capivo il punto di vista di Moravia. Per una scrittura limpida e tradizionale quel testo era un’eresia. Quando lo lessi non potei fare a meno di ammirare la straordinaria tensione morale, la densità di una lingua travolgente, lo specchio di un’Italia drammaticamente in bilico tra redenzione e caduta. Quel libro era un capolavoro».
Cosa pensa della morte di Pasolini?
«So che si è a lungo parlato di una specie di “omicidio politico”. Non ne sono pienamente convinto».
Perché?
«Per tutti coloro che lo hanno profondamente amato, Pasolini era stato l’implacabile critico di un’Italia corrotta e il cantore di un paese autenticamente premoderno. Non era facile accettare l’idea che la sua morte, per quanto tragica, fosse ridotta a una squallida vicenda di sesso. Certo, è vero che Petrolio contiene gli esiti di una ricerca che Pasolini aveva condotto sugli ambienti oscuri della finanza e della politica. Ma questo non giustifica un omicidio di quelle proporzioni. Non ci sono per lo meno prove inconfutabili. No, la sua, secondo me, fu una morte privata».
Quanto fu importante Pasolini per la Francia?
«Era un intellettuale ascoltato. I suoi film apprezzati, i suoi romanzi letti. Ma non c’era unanimità. Sartre ne apprezzava il coraggio, Foucault la provocazione, Barthes lo considerava naif».
E Moravia?
«In Francia fu considerato a suo modo un classico. Mi colpiva la generosità con cui trattava i giovani scrittori e perfino una certa modestia personale. Un giorno in macchina mi parlò di Elsa Morante, allora ricoverata in condizioni gravi a Villa Margherita. Me ne parlò con una tale intensità da lasciarmi stupito. Da tantissimi anni si erano separati e sapevo dei loro dissapori. A un certo punto gli dissi che lo consideravo il più grande scrittore italiano del Novecento. Ti sbagli, mi rispose, il più grande scrittore non sono io ma Elsa. Io sono un drammaturgo travestito da romanziere. La frase mi colpì».
Perché?
«Pensavo che fosse frutto di un’eccessiva generosità verso una donna certamente brava ma non così eccelsa come lui la dipinse. Avevo letto L’isola di Arturo, bellissimo, come i romanzi di altri scrittori. Fu solo quando decisi di scrivere la biografia di Elsa che scoprii di trovarmi di fronte a un continente e compresi perfettamente il senso di quell’affermazione».
Che idea si è fatta di lei?
«Era una donna complicata e a tratti aggressiva. Voleva essere amata ma non faceva niente per favorire un tale sentimento. Come altri grandi scrittori cercava l’assoluto. Quell’inaccessibile che se non lo tocchi ti getta nella disperazione o nella malagrazia».
Che cosa intende dire?
«Era una scrittrice che assegnava alla vita un potere immenso. Ma la vita non era quasi mai all’altezza della sua speranza. Ed è chiaro quindi che la normalità non fosse il tratto che poteva sedurla, semmai irritarla. Non averla conosciuta non è stato un limite».
Un’ammissione di normalità?
«Perché no? La normalità cui penso è soprattutto il rispetto delle regole. Qualcosa che mi è stato insegnato fin da piccolo e che ho ritrovato nella cultura giapponese».
Una cultura raffinata.
«È un mondo dominato dall’estetica e dall’interiorità. La nostra visione di un Giappone ultramodernista non tiene conto di un paese sospeso in un tempo irreale, con un grande rispetto dell’individuo».
Traduce anche dal giapponese.
«Ho vissuto a lungo a Tokyo prima di trasferirmi in Inghilterra e poi a Parigi. Vi arrivai come professore di filosofia all’istituto franco-giapponese. La scoperta di quella cultura fu per me una vera rivoluzione interiore e affettiva. Può apparire singolare che un traduttore si dedichi a due lingue così diverse».
In effetti è così.
«Entrambe hanno in gran conto l’eredità del passato. Quando tradussi la Divina Commedia avevo l’impressione di star traducendo un classico giapponese. Come un ritorno all’origine della letteratura e della coscienza di sé. Non so se si è fatto caso al fatto che tutti e due i paesi hanno la stessa difficoltà a definire la loro identità globale e per questo hanno sviluppato una falsa idea di nazione».
Lei ha studiato filosofia?
«Con Yvon Belaval, una donna straordinaria, grande conoscitrice di Leibniz. Agli inizi degli anni Cinquanta prese come assistente un giovanissimo Michel Foucault. Con lei preparai una tesi su Heidegger e Binswanger, lo psichiatra che si servì delle analisi "esistenziali" del filosofo per dare un nuovo corso alla sua disciplina».
Ha conosciuto Foucault?
«Piuttosto bene. Ricordo che il primo incontro non fu incoraggiante. Essendosi occupato di Binswanger, fiducioso accennai alla mia tesi di laurea: “Perché tratta argomenti così vecchi?”, disse liquidando il mio lavoro. A quel tempo si occupava dei temi legati alla coercizione. Cominciai a seguire i suoi seminari. Mi colpì che dedicasse un corso su un caso giudiziario di un contadino normanno, Pierre Rivière, che intorno al 1830 sgozzò la sorella, il fratello e la madre. Nel memoriale Rivière sostenne che dietro quel gesto c’era il tentativo di liberare il padre dalla tirannia familiare. Delitti così efferati e spiegazioni altrettanto estreme richiedevano un’indagine sul mondo che circondava Rivière, sul suo tempo storico. Foucault ne ricavò una lettura straordinaria».
Era attratto dall’anormale.
«Fu una delle costanti del suo lavoro. La sua intenzione era creare una collana editoriale di casi estremi in cui l’anormalità, come violazione delle leggi di natura, era l’effetto del potere disciplinare. Restò talmente colpito dalle memorie di Herculine Barbin, un ermafrodito che si suiciderà nella seconda metà dell’Ottocento, che decise di pubblicarle. Gli dissi che su quel caso un drammaturgo svizzero aveva scritto una pièce teatrale. Restò stupito perché non la conosceva. Fu in quel momento che mi diede la sua amicizia intellettuale. Ci rivedemmo poi casualmente in Giappone».
Cosa accadde?
«Era lì perché voleva scrivere un libro sui rapporti tra la cultura occidentale e quella giapponese. Dialogò per un po’ con Yoshimoto Takaaki, poeta e filosofo, padre tra l’altro della scrittrice Banana Yoshimoto. Alla fine però Foucault abbandonò il progetto. Non ho mai saputo perché. Negli ultimi anni della sua vita percepivo una sorta di malinconia avvolgerlo. Era deluso che in America gli avessero preferito Jacques Derrida. Anche in Francia l’ambiente intellettuale cominciò ad annoiarlo».
Ossia?
«Non voleva più parlare con gli altri filosofi, ma solo con giovani scrittori. Era stufo di quello che chiamava "giornalismo filosofico", praticato da Bernard-Henri Levy e da André Glucksmann, allora sugli scudi mediatici. Sapevo che era ammalato di Aids e prima di morire chiamò attorno a sé tutti i suoi amici. Era stremato. Perse conoscenza cadendo in cucina. Arrivai che era già morto. Penso che nessuno sia stato intellettualmente libero e curioso come lui».
Dopo Foucault, Derrida, Deleuze cosa è rimasto?
«Poco. Nessuno ha saputo prendere il loro posto. Oggi si lavora alla caricatura del mondo. La sociologia ha soppiantato la filosofia».
Lei è nato a Tunisi.
«Da una madre di origini franco- tunisine e un padre francese, con una traccia italiana. Papà era un militare di riserva. Quando lasciammo Tunisi avevo 6 anni. Ci trasferimmo nel sud della Francia. A Montpellier. Poi nel 1970 arrivammo a Parigi».
Torna mai in quei luoghi dell’infanzia?
«A Tunisi non vado dal periodo della cosiddetta “primavera araba”. Sono passato ad Algeri: una prigione a cielo aperto. Il mio amico Adonis ha detto che il mondo arabo non era pronto a una democrazia. Sono d’accordo. È stata una rivoluzione immaginata».
In fondo anche quella di Dante è stata una rivoluzione immaginata.
«Con ben altre suggestioni e intenti. Il suo fu il grande tentativo di raccontare la storia italiana. Siete ancora eredi di quella storia incompiuta. Di quell’immaginario collettivo».
Siamo più inferno, purgatorio o paradiso?
«Primo Levi mise in relazione le scene infernali con l’esperienza del campo. Il celebre racconto di Ulisse aveva un ruolo importante nella sua memoria culturale. Penso che l’Inferno sia soprattutto oggi la condizione più simile alla nostra. Dante vi fa prevalere le immagini, mentre il Purgatorio rappresenta il viaggio e il Paradiso il pensiero. È meraviglioso sapere che un genio ha tentato di descrivere l’indescrivibile».
È possibile un confronto con il “Canzoniere”?
«Petrarca è un altro tipo di genio. Dante è stato un grande filosofo e noi francesi se lo avessimo letto avremmo compreso molte più cose. In Petrarca ci sono l’amore e il paesaggio. Se Dante descrive con realismo stupefacente un’esperienza totalmente immaginaria, Petrarca si muove in maniera inversa: descrive come irreale un’esperienza che ha realmente vissuto. L’incontro con Laura ne è la prova. Su quell’amore scrissi un libro paragonando l’eroina del Petrarca alla Justine del Marchese de Sade».
Un’acrobazia mentale.
«Neanche tanto. La vera Laura sposò un antenato di de Sade. Quanto a Laura di Petrarca rappresenta l’amore senza sesso; mentre Justine è il sesso senza amore. La vera fortuna, se non si vuole essere condannati alla solitudine, è riuscire a coniugare le due cose».