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 2018  novembre 04 Domenica calendario

La Gerusaleme liberata in milanese

Fra Sei e Settecento la Gerusaleme liberata del Tasso fu oggetto di molte traduzioni dialettali. Se ne fecero in veneziano, genovese, bolognese, napoletano, calabrese, e ogni volta ciò avvenne in uno stile che era piuttosto giocoso anziché impegnato nella resa autentica di quel testo, che meno gioioso non si può. Giovan Battista Lalli pubblicando una sua versione dell’Eneide la dichiarò senz’altro un travestimento, affermando senza esitazioni che descriveva parafrasticamente «la sostanza dell’original sentimento dell’autore» riducendo «quel gravissimo poema a stil giocoso»; abbassandone il registro stilistico e non rifuggendo dall’adottare un lessico meno nobile ed educato per far nascere anche là dentro arguzia e riso. Era pressoché inevitabile, per farsi apprezzare nell’età dell’arguzia e leggere nell’età del carnevale; se si vuole appunto far leggere e far piacere la poesia agli ignoranti: compito assai più meritorio di quello di farla piacere ai dotti, come teorizzò un’altro della partita, Francesco Quadrio nella sua Storia e ragione d’ogni poesia (1739). Tant’è che la solenne e mestaGerusalemme liberata in questo modo può riuscire ancora più gradita di quanto lo sia già rispetto all’Orlando furioso, e giungere «ai vetturini, ai bottegai, ai barcajuoli», che la canteranno viaggiando, lavorando, vogando. Infatti, oltreché una questione di gusto, c’era in tali operazioni una rivendicazione politica e sociale. Dante Isella, maestro e antesignano di questi studi, intitolò due suoi volumi presso Einaudi I Lombardi in rivolta (1984) e Lombardia stravagante (2005). E i suoi autori furono per vent’anni il commediografo Carlo Maria Maggi, Giovan Pietro Lomazzo, Carlo Dossi, Delio Tessa, Carlo Emilio Gadda. Nella Presentazione della raccolta di rime Rabisch del Lomazzo (1993), scritte in un gergo dell’Alta Lombardia a fine Seicento e adottato anch’esso con compiacenza in una finzione accademica, Isella notava la presenza allora fra i Lombardi di «un vivace movimento culturale di fronda» nato e cresciuto nel clima del rigorismo post-tridentino, di uomini «consci del proprio valore e nient’affatto disposti a rinunciare alla gioia del vivere». 
Di dare un Tasso lombardo si incaricò Domenico Balestrieri, divertendosi egli per primo. E tale era il suo proposito, tale il fine, enunciati nei primi versi, ottava seconda: «Via demmegh dent, l’è vora che me metta. (…) | Tiremm Goffredo in scena, anzi in burletta | Vestii alla casarenga [alla casalinga]». 
Vi lavorò per una quindicina di anni, dal 1743 mentre era ospite del conte Imbonati sul lago di Como, e continuandolo fra altre amene villeggiature o nella sua casa di Porta Romana, fino al 1758. La prima edizione uscì nel 1772 in un volume in folio, seguita da una seconda in quattro volumetti portatili. 
Accademico dei Trasformati, di vasta cultura antica e moderna, Balestrieri aveva esordito come poeta dodici anni prima con una raccolta di rime, Lagrime in morte di un gatto, in cui già qualcuno notò la propensione alla satira e alla facezia. Il Balestrieri stesso, corpulento anzi obeso, nelle Rime scioglie un inno in onore e lode dell’osteria «che dommà a nominalla | La me fa coor per bocca la saliva», invitando i signori a piantar lì la loro bella galleria illuminata per venire con lui in quel luogo. 
Nell’edizione che ora dà della Gerusalemme volgarizzata Felice Milani nella collana della Fondazione Pietro Bembo, essa occupa oltre 1300 pagine: si potrebbe anche dire riempie, tanto è fitta e fornita di ogni strumento per il lettore: la parafrasi italiana del testo e note esplicative di natura linguistica o con le varianti e i paralleli; alla fine indici delle parole gergali e dei nomi propri. Il Milani, direttore della Biblioteca Civica di Pavia, vi è giunto dopo l’esperienza delle Rime milanesi dello stesso autore, nella stessa collana (2001); e senza di lui ben pochi potrebbero oggi imbarcarsi sul pelago insidioso dei venti canti tasseschi, modulati, anziché in pura lingua e altissimo stile epico e lirico, in un volgare realistico e bernesco, con forte attenzione anche al livello acustico del dialetto, oggi sfuggente anche a un Meneghin di Meneghin de Meneghella come si firmava il Balestrieri.
La prima ottava della Gerusalemme liberata: «Canto l’armi pietose e ’l capitano | Che ’l sepolcro liberò di Cristo. | Molto egli oprò col senno e con la mano, | molto soffrì nel glorioso acquisto», doviene: «Canti la guerra santa e ’l Capitani, | C’ha liberaa el Sepolcher del Signor; | Par reussinn el n’ha passaa de strani, | El g’ha impieghaa coo e brasc, struzi [fatiche] e sudor».
Questa è l’ammaliatrice Armida, che (canto IV) con le sue grazie miete vittime nel campo cristiano: Tasso «Fa nove crespe l’aura al crin disciolto, | Che natura per sé rincrespa in onde; | Stassi l’avaro sguardo in sé raccolto, | E i tesori d’amore in sé nasconde. | Dolce color di rose in quel bel volto | Fra l’avorio si sparge e si confonde, | Ma ne la bocca, onde esce aura amorosa, | Sola rosseggia e semplice la rosa»; Balestrieri: «Hin increspaa da on ventisell legger | I rizz sott a ona scuffia sorafinna. | La stà soda e la ten bass i palper | Sta morgnighetta della capellina. | L’è propri come vin e laccemer [lattemiele]| La bella faccia soeulia e moresinna; | E ’l bell boccoeu l’è ’n bottonscin de roeusa, | Che ’l par dommà cattaa dalla soa proeusa». 
E Clorinda, la femmina guerriera (canto II): Tasso «Costei gl’ingegni femminili e gli usi | Tutti sprezzò sin da l’età più acerba: | A i lavori d’Aracne, a l’ago, a i fusi | Inchinar non degnò la man superba»; Balestrieri: «Costee el l’ha fada semper de scumetta [Costei ha sempre fatto la schizzinosa], | E a tegnì dur l’ha comenzaa a bonn’ora. | N’occor minga speragh che la se setta, | Che la toeuja el cossin [che prenda in mano il tombolo], che la lavora...».
Nello scontro finale (canto XX) Solimano esce furente dalla città e affronta ogni cristiano, finché cade ucciso da Tancredi: Tasso «Scende egli giù per le abbattute mura | E s’indirizza a la gran pugna in fretta. | Ma ’l furor ne’ compagni e la paura | riman ch’i suoi nemici han già concetta»; Balestrieri: «El sbalza sgiò par i mur rott, e ’l passa | Dov’è ’l gross di Franzes con gran premura; | Ma ai soeu compagn, che resten lì, el ghe lassa | El sò coracc, e ai noster la pavura. | I Cristian l’han magra, i Turch l’han grassa».