Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2018
Nasce il colosso delle miniere
Il matrimonio più prezioso dell’anno è ormai alle porte. È atteso per la prossima settimana, tra domani e mercoledì, il sì degli azionisti alla fusione tra Barrick Gold e Randgold, un’operazione da 20 miliardi di dollari che punta a riunire sotto lo stesso tetto cinque delle dieci miniere d’oro più redditizie del mondo e una capacità di produzione superiore a quella di Canada o Sudafrica: ben 6,6 milioni di once l’anno (187 tonnellate).
Per Barrick Gold in particolare è il momento della verità. Il gigante canadese spera con queste nozze di riuscire a resuscitare la sua leggenda. Ma la creazione della New Barrick avviene in un periodo denso di incertezze per il settore. E la sfida non si prospetta facile. Nei primi decenni di vita la società aveva descritto una parabola entusiasmante: aveva in portafoglio una sola miniera (e alcuni pozzi di petrolio) nel 1983, quando era stato fondata da Peter Munk, un ebreo ungherese finito in Canada ai tempi delle persecuzioni naziste, e nel 2006 era già il numero uno mondiale dell’oro, per capitalizzazione e per produzione. Poi è iniziato il declino e negli anni successivi Barrick ha perso lo scettro, a vantaggio della statunitense Newmont. L’unione con Randgold le consentirebbe di riconquistare il primato.
A determinare l’ascesa di Barrick in passato aveva contribuito un’attività esplorativa intensa e talvolta spregiudicata, come nel caso di Pascua Lama, miniera a 4.500 metri sulle Ande, costata perdite miliardarie dopo lo stop imposto per motivi ambientali. Ma l’ingrediente principale per la crescita del gruppo è sempre stato l’M&A: una lunga serie di acquisizioni, culminate in quella del principale competitor in patria, Placer Dome, rilevato per 10 miliardi nel 2006.
Munk, che è scomparso a marzo all’età di 90 anni, nell’ultima parte della vita si era dedicato soprattutto ad attività filantropiche. Ma aveva conservato un ruolo operativo come presidente di Barrick fino al 2014, abbastanza a lungo per assistere al declino della società e per cercare di rianimarla con un’altra fusione, quella (fallita) con l’arcirivale Newmont. L’anziano fondatore ha avuto voce in capitolo anche nelle trattative con Randgold. «Ne abbiamo discusso almeno cento volte durante tutta l’evoluzione», ha raccontato John Thornton, attuale ceo di Barrick e protagonista di questo deal.
Thornton, un ex banchiere di Goldman Sachs, alla guida di Barrick dal 2014, ha rivelato di aver corteggiato per ben tre anni Randgold e il suo carismatico ceo, Mark Bristow, prima di riuscire a vincerne la resistenza. Sul piatto ha messo 6 miliardi di dollari in azioni – prezzo che non attribuisce alcun premio sul valore di Borsa della preda, anche se pochi giorni fa ha aggiunto un dividendo extra – e i suoi soci avranno il 66% del nuovo gruppo. Ma le due minerarie insieme sembrano in grado di resistere meglio ai venti contrari. E Thornton, accontentandosi della carica di presidente, cederà il timone a Bristow, una figura ormai leggendaria quasi quanto Munk nell’industria dell’oro, che ha guadagnato anche col suo stile eccentrico. Sudafricano, laureato in geologia, Bristow si sposta con un aereo che pilota lui stesso e organizza tour in motocicletta attraverso l’Africa a scopo di beneficenza. Ma la stima del settore gli deriva da altro: la “sua” Randgold, che ha fondato nel 1995, è l’unica società aurifera al mondo che non ha mai registrato un trimestre in perdita. Sul listino di Londra (che presto lascerà) ha guadagnato il 4.000% dal 2000, il miglior titolo del Ftse 100. Nell’ultimo decennio si è apprezzata del 120%, mentre Barrick – in linea col settore aurifero – ha perso il 70%.
Forte del suo curriculum, Bristow ha spesso denunciato che la crisi nasce dagli errori del passato, quando molti manager spendevano miliardi per acquisizioni avventate o progetti estrattivi faraonici, indebitandosi senza nemmeno ottenere la crescita sperata. Barrick è stato a lungo il capofila di questi gruppi “cicala”, anche se negli ultimi anni ha fatto pulizia in bilancio con pesanti svalutazioni e ha ridotto i debiti, rinunciando a numerose miniere e dando una stretta draconiana ai costi. Il consolidamento e la guida di Bristow sono la ricetta per tornare a crescere e per riconquistare il favore degli investitori, sempre più scettici. L’oro è tuttora in ribasso di quasi il 6% da inizio anno nonostante la (recente) corsa agli acquisti di alcune banche centrali e le società aurifere in media hanno perso un quarto del valore. Persino la virtuosa Randgold, incappata in alcune difficoltà in Africa, è entrata nel mirino delle vendite: negli ultimi 12 mesi è in ribasso di circa il 30%, proprio come Barrick.