il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2018
Intervista a Fabio De Luigi
“Ma è proprio certo dell’intervista con me?”. Sì, perché?
Fabio De Luigi, sornione senza malizia, quando risponde non ama mai la strada breve, spesso si inerpica su ragionamenti articolati con sfumature astratte; per molte donne è un sex symbol nonostante un suo perenne e reale stupore e nonostante non abbia quasi nessuna classica caratteristica del bonazzo: lui è una delle poche certezze al botteghino cinematografico, ora con il divertente Ti presento Sofia, in una stagione di prolungata astenia. “Le racconto un episodio di pochi anni fa: vado a cena in un ristorante nel centro di Roma per festeggiare la prima di un film; a metà serata decido di andare via, l’umore non era dei migliori. Esco e trovo i fotografi appostati: come unico soggetto disponibile, vengo assalito dai flash; passano pochi secondi e si fermano, poi uno di loro mi guarda e decide di darmi una spiegazione: “Scusa Fabio, ma tanto è inutile: le tue foto i settimanali non le comprano, sei una perdita di tempo”. Ci è rimasto male. “Malissimo! Poi sono scoppiato a ridere e ho pensato: ‘Proprio una giornata di merda’”.
Con “Ti presento Sofia” conferma il suo appeal…
Siamo contenti, ma ho perennemente la sensazione di stare seduto su un terreno sdrucciolevole, dove tutto è immediato e relativo; però questo è il lavoro che desidero da sempre e vorrei che questa giostra non finisse mai…
E poi?
Uno convive con la perenne paura di deludere le aspettative, e basta un attimo per azzerare e magari associarti l’etichetta di quello che non funziona più o ha stufato.
Il film è una commedia ben costruita.
Davvero? Grazie, molto del merito va pure a Micaela Ramazzotti, bravissima, un’attrice come ce ne sono poche, e Caterina Sbaraglia, lei una rivelazione. Resta la sensazione della pagella di scuola: ogni volta aspetto la consegna per capire.
Chissà uno come lei a teatro.
Conati da tensione, ansia da prestazione, riti scaramantici.
Quali riti?
Nel camerino tutto è allineato, le scarpe toccano con la punta il muro, i vestiti ben sistemati, quando dentro casa non sono esattamente così.
Ordine esterno, ordine interno.
In generale sono iper controllato, ho bisogno di avere tutto ben chiaro, e il teatro estremizza le ataviche nevrosi.
Fughe al bagno.
Sempre! Compresi i pensieri di scappare dalla finestra; ma quando sali sul palco entri in uno stato di grazia, una condizione di lucidità superiore, in grado di farti percepire ogni sfumatura dello spazio personale quanto collettivo.
E se qualcuno ha il cellulare acceso?
Sto zitto, non sono uno da battuta fulminante, la mia comicità è sempre stata di rimessa, non d’attacco.
E quando all’inizio della carriera andava nei pub, solo sul palco?
Soffrivo, però mi è servito: avevo due repertori distinti, uno più teatrale, l’altro cabarettistico (si ferma). Il mio incubo ricorrente è tornare a quei tempi, nel caso cambierei lavoro, per me è insopportabile.
Quanto pubblico?
Il minimo è stato di due paganti.
È andato avanti?
Sì, nel frattempo limonavano e io saltellavo sul palco.
Un guardone.
Ero obbligato! Il locale era pure bello, con le poltrone, mentre all’epoca ero abituato ai pub con il pubblico dedito al rutto libero; ah, alla fine sono stato io ad applaudire i due limonanti.
Mai scappato.
Sono arrivato a esibirmi in pizzerie con il pubblico neanche informato dello spettacolo, e io a ingegnarmi per attirare lo spettatore o quantomeno giustificare la mia presenza tra una margherita con doppia mozzarella e una focaccia ripiena.
Disciplinato.
Forse grazie allo sport: dagli 8 ai 18 anni ho praticato karate, e quel periodo mi ha segnato. O almeno credo.
Ha messo in pratica il karate?
Ho sfiorato numerose risse e assistito ad altrettante, ma non sono mai arrivato a colpire; al massimo, in quanto italiano medio, in macchina mi incazzo e urlo, raggiungo livelli disdicevoli, per fortuna senza conseguenze.
Poi la riconoscono.
Ci penso ogni volta e mi dico: “Ora si ferma, guarda, ti riconosce e finisce in farsa. Lascia perdere”.
Sex symbol.
Mi paragonano a Hugh Grant e scoppio sistematicamente a ridere, però mica nego un sottile piacere: prima di questo lavoro non sono mai stato considerato un figo.
Mai.
A scuola non rientravo nel gruppo dei belli, il primo bacio l’ho dato grazie al gioco della bottiglia, altrimenti stavo ancora lì in attesa.
Ha dichiarato: “Sono pigro, mi lavo poco”.
Ho detto questa minchiata?
Sì.
Sulla pigrizia confermo, in quanto alla pulizia è il contrario: spesso esagero. Era una battuta mal riuscita.
Riproviamo: “Quello del comico è uno dei mestieri più umilianti del mondo”.
Confermo: quando hai il compito di far ridere, e sali su un palco, per strappare la risata sei autorizzato a utilizzare qualunque mezzo, compreso risultare un cretino; se ci riesci sei uno bravo, se fallisci passi dal fare a essere cretino, con un senso di totale umiliazione che va a incidere sull’autostima.
Dolore.
Puoi arrivare a piangere: non c’è niente di paragonabile all’insuccesso di uno che voleva ottenere una risata.
Soffre per i colleghi?
Quando vedo uno in difficoltà inizio a sudare, le mani umidicce, il collo perlato, lo stomaco sotto la gestione dei crampi.
Lei e la Gialappa’s.
Con loro è arrivata la svolta, e ne ero certo: già prima di andarci li guardavo e pensavo ‘voglio lavorare con loro’. Li giudicavo bravissimi in assoluto, perfetti per me: scrivevo con l’idea di trovare qualcuno in grado di mantenere un filo rosso rispetto allo spettacolo, ed evitare il monologo.
Con i loro programmi è giunta la reale fama.
Non proprio immediata, la trasmissione era ben rodata e con dentro mostri sacri come Teo Teocoli e Antonio Albanese; impensabile stare al loro livello.
Sì, ma quando ha percepito la svolta?
Ho due parametri: nel primo anno interpretavo Fabius, alter ego di Marcus, celebre modello internazionale: 30 secondi a puntata. Mesi dopo il mio debutto inizia la settimana della moda milanese, e ci viene l’idea di sfilare su una delle passerelle. Impossibile. Così contattiamo i California Dream Man, impegnati in uno spettacolo.
Altissimi, muscolosi e seminudi.
Arrivo in un palazzetto pieno di donne urlanti e mi consegnano uno slip infinitesimale, mi rifiuto, tengo i boxer, e dentro di me scatta l’allarme: ‘Qui scatta la figura di merda’.
E invece…
Salgo sul palco e scoppia il boato, con cori e lanci di baci; a quel punto sento una scossa di adrenalina folle e mi spoglio.
Il secondo parametro?
Andiamo a Sanremo, anche noi a strascico del Festival per alcuni servizi; lì mi ritrovo inebetito accanto al mio mito assoluto: Sting; da ragazzo ascoltavo solo i Police.
Insomma…
Passo vicino a uno spazio, mi chiedono di salire su un palco, e pure lì il boato.
Indossa mai il cappellino per passare inosservato?
No, al massimo gli occhiali da sole, poi arriva sempre qualcuno che mi apostrofa: ‘Tanto ti abbiamo riconosciuto’.
I suoi figli come si rapportano alla fama?
Abbastanza bene, sono io quello protettivo.
Cosa teme?
In assoluto è già complicato confrontarsi con i genitori, figuriamoci se uno dei due porta con sé un peso aggiuntivo come il mio; quindi mi pongo degli interrogativi e rivendico la scelta di vivere in provincia.
Nel particolare, cosa la agita?
Un po’ di tutto, ma il sentimento che vince dentro la testa di un genitore non è l’amore, ma una conseguenza dell’amore: la paura.
A prescindere.
Di qualunque cosa.
Quando sceglie un copione pensa anche ai suoi figli?
La maggior parte dei miei film sono delle commedie definite ‘larghe’, per tutti, solo in un paio di occasioni ho sfiorato l’altro, e dopo aver comunque smussato delle scene.
Ha smussato?
Sì, per stare a mio agio; in altri casi ho addirittura convinto regista e produzione a togliere delle parti: se non sono pienamente convinto, poi il risultato è fiacco.
Con Salvatores si è inerpicato in una scena di sesso.
Ed è stata tostissima! Piazzato su un letto girevole, vestito solo con una mutanda color carne e circondato da un numero imprecisato di persone; mentre stavo lì penavo: ‘Ma come ci riescono gli attori porno?’.
Inibito.
Solo inibito? Peggio…
C’è chi si diverte.
Beati loro, io sono stato disegnato per altri scopi.
Ha lavorato con Pupi Avati, da poco 80enne.
È un portatore sano di ironia e di cinismo: con lui una persona ha il piacere di condividere la vita come individuo e non solo come attore, una sensazione che ho provato anche quando al mio esordio radiofonico lavoravo con un grande come Enrico Vaime.
Il suo debutto su un set.
Ovviamente una figuraccia: primi anni Novanta, ottengo una piccolissima parte in un film di Marco Ferreri; dovevo arrivare nel foyer di un cinema e recitare una serie di battute lunghe. Inizio e quasi incespico, mi assale il panico, balbetto peggio, e preso dall’ansia urlo ‘stooooop’ al cameraman.
Audace.
Ferreri livido mi assale: ‘Non si permetta mai più di dire stop in un mio set’.
È stato protagonista del remake de “Il vedovo”, con qualche polemica annessa.
Film contestato ancor prima di uscire, con accuse pesanti per aver toccato un pezzo sacro della commedia italiana, quando per me è stato solo un atto d’amore: magari così i ragazzi possono scoprire e recuperare l’originale, vero capolavoro di uno dei grandi come Dino Risi.
Suo figlio si chiama Dino.
Quando dai un nome, pensi a coloro che ti piacciono, e ho trovato: Risi, Buzzati, Meneghin, Raja, Zoff e la Ferrari; ma tra tutti vincono Risi e Buzzati.
Ha giocato per anni nella Serie A di baseball: le manca l’odore dello spogliatoio?
Più il profumo dell’erba del campo e l’adrenalina della gara.
A quanti ha dovuto spiegare le regole?
A tanti ma è inutile: in Italia, e a ragione, è vissuto come uno sport noioso; è come vedere una partita a scacchi e senza conoscere i motivi delle mosse, quindi ti trovi davanti a due pupazzi immobili.
Tonino Guerra.
Lo zio di mia mamma.
Avevate un rapporto?
Molto in là con gli anni, prima è stato solo lo zio famoso che vive a Roma e scrive film importanti.
Lo ha mai interrogato su Fellini, Cinecittà…
Non ne aveva bisogno, parlava a raffica; poi condividevamo dei momenti belli nei quali mi invitava nella sua casa di campagna per conoscere i suoi amici e colleghi. Se c’erano mostri come Angelopoulos, evitavo.
E perché?
Temevo il confronto, cosa potevo raccontargli? Preferivo quando era solo, anche se solo non capitava quasi mai.
Le dava consigli per il lavoro?
Un giorno vado a trovarlo in ospedale: ‘In cosa sei impegnato?’. Un film zio, anzi un filmetto. ‘Dimmi’. No, non è per te. ‘Dimmi, dai!’. Alla fine gli racconto la trama, e lui: ‘Fate così, nel castello costruite una stanza completamente dissonante rispetto al resto’. Va bene, zio. ‘Forse non hai capito, è bella’. Sì, poetica. ‘Se non la inserite vi denuncio’.
Ha obbedito?
Macché, il suo era proprio un altro cinema.
Lei cosa vuole?
Al momento mi trovo abbastanza in linea con i miei desideri… Posso lasciare la situazione invariata?