Il Messaggero, 4 novembre 2018
I videogiochi rendono analfabeti?
«Sarà forte ma io considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento. In casa mia non entrano». È questo il tweet con cui Carlo Calenda, l’ex ministro dello Sviluppo economico, ha ammesso di tenere lontani i suoi quattro figli dai videogiochi. Queste poche parole, scritte da colui che nei governi Renzi e Gentiloni era visto come l’uomo dell’innovazione, hanno scatenato un polverone di polemiche. Una battaglia a colpi di tweet tra Calenda, sostenuto da un gran numero di commenti, e chi è intervenuto in difesa dei videogame. Dai semplici appassionati agli esperti del settore. «Carlo Calenda credo che lei, in buona fede, non conosca la reale identità di ciò che chiama giochi elettronici, che sono opere interattive dal valore culturale e artistico, nel solco di letteratura, teatro, cinema o fumetto. Lo insegno da 10 anni all’Università», scrive in un tweet Marco Accordi Rickards, docente all’Università Tor Vergata di Roma, secondo il quale «oggi il videogioco è molto più che un semplice gioco davanti a uno schermo, è un’autentica opera interattiva».
LA VELOCITÀ
Ma Calenda sembra non credere nelle possibilità offerte dall’interattività dei nuovi videogiochi. Tanto che su Twitter aggiunge: «Il problema è la passività rispetto alla lettura e al gioco. Reagisci non agisci. Inoltre abituano la mente a una velocità che rende ogni altra attività lenta e noiosa». A controbattere all’ex ministro è anche Gabriele Niola, critico videoludico di Wired, secondo il quale la posizione di Calenda sarebbe «molto facile e un po’ ignorante».
«La video ludica dice – è innanzitutto esercizio della mente e risoluzione di enigmi. Che, alla destrezza manuale affiancano un lavoro di ricerca delle soluzioni, anche solo dei punti di deboli di un boss, che manca per esempio al gioco tradizionale». Nella discussione è subentrato anche il fattori economico. «Come ben certifica Aesvi, l’associazione di categoria dell’industria del videogioco italiana in Confindustria, fattura 1,5 miliardi di euro annui, posizionandosi tra i più importanti mercati europei. Sempre più donne e uomini trovano lavoro in questo settore», sottolinea Rickards ad Agenda Digitale. Ma accanto a tanta indignazione ci sono tweet di sostegno alle parole di Calenda. «Per un’ opera, forse, di qualche interesse miliardi di terabyte di monnezza infarcita di violenza gratuita – scrive un utente su Twitter – e insulsaggini per tutti i gusti e tutte le tasche. Questo insegnate all’università: come mantenere sti poracci nell’infanzia perenne e, devo dire, ci riuscite benissimo».
Che il tema abbia scaldato i social non dovrebbe stupire. I gamer italiani sono, infatti, tantissimi: 17 milioni, pari al 57% della popolazione tra i 16 e i 64 anni. Ma in questo mare di gamer italiani, si celano anche tanti, anzi troppi, «malati di videogiochi». Sono perlopiù ragazzi che trascorrono ore e ore, a volte anche intere giornate, davanti allo schermo. Ragazzi che, per questo, arrivano a perdere interesse per lo studio, per lo sport e per qualsiasi altra attività. C’è chi addirittura smette di mangiare e dormire per non doversi scollegare al gioco. Tecnicamente sono definiti dipendenti: un esercito di oltre 240 mila italiani, tra i 15 e i 30 anni d’età, stando all’analisi della Società italiana psichiatria sociale. Non è affatto un problema solo italiano, ma globale. Proprio quest’anno, la stessa Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha riconosciuto ufficialmente la dipendenza da videogame come una patologia. Il «gaming disorder» è stato infatti inserito nel capitolo sulle patologie mentali dell’International Classification of Diseases, l’elenco delle malattie psichiatriche. Decisione che, qualche mese fa, non è stata accolta con favore dalla stessa Aesvi che ha esplicitamente dichiarato di sperare che l’Oms riconsideri la sua posizione. Ma per gli psichiatri la dipendenza da videogioco c’è, eccome. E inizia a insinuarsi ben prima dell’adolescenza. «Di dipendenza da videogame – spiega Andrea Fiorillo, professore associato di Psichiatria Università Vanvitelli di Napoli – oggi si parla per le fasce dai quindici ai trent’anni. L’attività comincia prima, intorno ai dieci, e la dipendenza può manifestarsi anche dopo i trenta».
LO STUDIO
Secondo uno studio del Comune di Milano e realizzato dall’Istituto di Fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche, ci sarebbero ragazzini che arrivano a spendere oltre 50 euro in partite virtuali. «C’è chi gioca tutta la notte, così lo schermo sostituisce la vita reale. Invece di stare con gli amici, fare sport o dormire», dice lo psicologo Sergio Salviati, uno dei curatori dello studio. Recente è il caso del ragazzo di 15 anni nel Cremonese che, su decisione del Tribunale dei minori, è stato allontanato dai suoi genitori e affidato a una comunità perché schiavo della consolle. «Negli anni passati ci sono stati dei casi di giochi via web – spiega Cherubino Di Lorenzo, neurologo presso il Centro Cefalee Istituto Neurotraumatologico Italiano-INI – in cui ci si limitava a premere un bottone mentre la musichetta e le lucine andavano avanti e i ragazzini passavano le nottate sveglie a continuare, esattamente come accade con le slot machine». Con conseguenze, secondo l’esperto, potenzialmente gravi. «Sicuramente – spiega ancora – possono esserci anche delle complicanze neurologiche, famosi sono stati in passato i casi di crisi epilettiche indotte dalla stimolazione luminosa e dalla deprivazione di sonno a cui questi soggetti erano esposti».