Il Messaggero, 4 novembre 2018
Enrico Montesano e suo figlio Valerio
«I figli devono uccidere i padri» dice all’improvviso Enrico Montesano. Marco Valerio, con la grazia disarmata dei suoi 21 anni, lo guarda un po’ perplesso. Non commenta. Magari sta pensando: «Ma veramente papà ha detto questa cosa?». Sta di fatto che il ragazzo, nonostante avesse pure cercato per qualche mese di fare altro nella vita («Dopo il liceo classico, ho avuto la tentazione di studiare economia»), alla fine si è trovato a fare lo stesso mestiere del padre, l’attore: «Ci sono caduto. Era l’aria che si respirava a casa, e a me piaceva».
Sul palcoscenico ha debuttato a soli 16 anni, nel 2013, in una commedia scritta e diretta dal padre, C’è qualche cosa in te, e ora si prepara e fare una parte in Rugantino, che vede Montesano senior dopo 40 anni tornare alla sua celebre maschera (al Sistina dal 20 dicembre). Nel mezzo c’è stato un diploma all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, dove Marco Valerio si è anche sperimentato come drammaturgo. Stessa sorte per il fratello Enrico Michele, 24 anni (anche lui figlio di Teresa Trisorio, l’ultima moglie di Montesano, sua compagna di vita da trent’anni) che invece all’Accademia si è iscritto di nascosto dai genitori, ma intanto con Enrico aveva già recitato nel Conte Tacchia e nel Marchese del Grillo. Gli altri quattro figli di Montesano, che sono nati dai precedenti matrimoni (il maggiore, Mattia, è figlio di Marina Spadafora, mentre Tommaso, Olivier e Lavinia sono nati da Tamara Moltrasio), lavorano come giornalisti, operatori, scenografi. «Nessuno che si occupi, che so, di nanotecnologie».
BIRRE E TISANE
Nella casa romana di Montesano, padre e figlio sono seduti su due poltroncine identiche. Marco Valerio ha grandi occhi scuri, belli come quelli della madre. Del padre, trattiene una certa aria remota, meditativa. Ci troviamo in un angolo rialzato del grande salone dai colori scuri. Le luci sono soffuse, discrete. Beviamo una tisana. «Questa è una famiglia biologica, è già tanto che non le abbiamo offerto la camomilla» gioca Enrico Montesano, che oggi ha 73 anni. Eppure, nel primo testo che Marco Valerio ha scritto con il fratello Michele e un altro loro compagno d’Accademia, Francesco Pietrella, scorrono litri di birra. «L’abbiamo intitolato Sul divano ed è la storia di due fratelli che vivono fuori dal mondo. Si appellano a una Costituzione tutta loro e aspettano non si sa che cosa. A un certo punto finiscono le birre, ma loro hanno paura a uscire da casa. Non resta che il succo di frutta, e quel sapore riporta a galla un trauma del passato».
IL SESSANTOTTO
«Insomma, una cosa tra Pinter e Beckett con una spruzzatina di Proust» interviene Enrico. «Sa cosa mi colpisce di questi ragazzi? Che sono già nostalgici dell’infanzia». Tra padre e figlio passano 52 anni. Mezzo secolo di sconvolgimenti storici, che hanno fatto in tempo a rivoltarsi nel loro esatto contrario: l’apparenza di una pace eterna, dove non succede mai nulla. «Con i miei coetanei parliamo poco di politica. No, l’impegno non c’è». «Io invece sono un ex ragazzo del Sessantotto. Iniziavo a lavorare proprio in quegli anni al Puff con Lando Fiorini. La ribellione per noi era un valore. Nascondevamo i nostri coetanei che sfuggivano alla polizia. E, anche se recitavamo pezzi comici, l’intento era sempre quello di infrangere dei tabù. Io facevo l’imitazione di Papa Paolo VI e la gente si alzava indignata, chiedendo la restituzione del prezzo del biglietto».
Enrico Montesano non ha mai nascosto le proprie simpatie socialiste e nomi come Sandro Pertini e Pietro Nenni sono sempre circolati tra le mura di questa casa in cui Marco Valerio è nato: «So chi è Sandro Pertini perché me ne ha parlato mio padre. La storia contemporanea a scuola si ferma al 1945».
Alle nostre spalle, si staglia un’ampia libreria e sopra i numerosi tavoli del salone non ci sono solo i premi vinti da Montesano tra cui tre David di Donatello (nel 1986 fu premiato anche come regista esordiente, con A me mi piace) ma volumi di architettura, storia, letteratura. «Degli attori comici, si pensa sempre che siano superficiali. Invece qualche libro l’abbiamo letto pure noi. Qualche volta l’abbiamo persino scritto». «Tra le prime cose che mi sono andato a cercare nella libreria di mio padre c’erano gli Epigrammi di Marco Valerio Marziale. Volevo capire da dove provenisse il nome che mi avevano dato i miei genitori. Marziale era nato a Bilbilis (Saragozza), in Spagna, e quando si è trasferito a Roma, ha cominciato a scrivere epigrammi pieni di nostalgia per la sua città natale. Tornato a Bilbilis, gli mancava Roma. Insomma, era uno che sentiva di non appartenere a nessun luogo».
Fatalmente, il discorso scivola su Roma. «Io sono cresciuto a via In Selci, nel quartiere Monti, a casa di mia nonna paterna, che era stata cantante d’operetta. Mio nonno, che si chiamava come me, Enrico Montesano, era direttore d’orchestra. Non mi sono mai allontanato né da Roma né dall’arte. È una questione di Dna. Però adesso questa città non la riconosco più. Le strade sono piene di gente incazzata che vuole sopraffare gli altri. Io non riesco ad andare in bicicletta che c’è sempre qualcuno che tenta di attentare alla mia vita. Ormai è stata istituzionalizzata non solo la seconda, ma anche la terza fila di macchine parcheggiate». «Invece questa cosa che a Roma puoi vedere una chiesa barocca, le macchine parcheggiate in terza fila e un palazzetto dell’Ottocento, tutto nello stesso fotogramma, a me piace» risponde Marco Valerio, che ammette di avere un’indole simile alla sua città. «Non voglio rinunciare a niente».
IL PUGILATO
Una delle passioni a cui non vuole rinunciare è il pugilato. «Vuoi fare l’attore con il naso rotto?» gli chiede il padre. «Quando fa così, gli porto l’esempio di Dean Martin, che andava a combattere nei garage. «Dean Martin non aveva il naso rotto». «Neanche io ho il naso rotto, papà». A questo punto ci aspetteremmo una zuffa in fatto di gusti musicali. «E invece lo sa che l’altro giorno passavo in corridoio e mi sono accorto che lui e suo fratello stavano ascoltando Frank Sinatra?». «Se è per questo, anche Fabrizio De André e Rino Gaetano ci piacciono molto. Però poi è naturale che a mio padre non dicano niente i gruppi indie romani come Calcutta, Carl Brave, Franco 126». «Franco chi?».
IL CARATTERE
Sui nuovi volti del cinema, si esprimono però all’unisono: «Luca Marinelli e Alessandro Borghi, i più bravi». Contemporaneamente nominano anche il titolo del film più amato degli ultimi anni: «Non essere cattivo di Claudio Caligari». Nel 2016 ai David di Donatello trionfò invece Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. «Bel film, per carità, ma non c’è confronto con quello di Caligari, così diretto, sincero» dice Marco Valerio che, candidamente, passando da una libera associazione all’altra, arriva a confessare di se stesso: «Il mio più grande difetto è che mi arrabbio facilmente. Non riesco ad accettare le ingiustizie». «Io ero uguale. Quando sul set stavo con Mario Monicelli, Nino Manfredi o Aldo Fabrizi, non fiatavo. Ma se poi non c’erano personaggi di quel livello, io volevo dire la mia. Questo infastidiva. Con gli anni, penso che sarei dovuto essere più accomodante, ma come si fa a evadere dal proprio carattere?».