Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2018
House of cards, ultimo atto in perdita per la serie tv da 60 milioni a stagione
Cosa fai se l’attore simbolo della tua serie Tv più famosa finisce travolto da uno scandalo sessuale, con denunce a ripetizione che fioccano sull’onda del movimento #MeToo? Lo estrometti da tutti i progetti ai quali stava lavorando, trasformi la sua controparte femminile nella nuova protagonista della serie e affidi in pianta stabile all’attrice che la interpreta il ruolo di regista. Esattamente quello che ha fatto Netflix con la sesta stagione di House of cards, in onda da ieri sera su Sky Uno e completamente disponibile in streaming on demand sulle piattaforme di Sky e Netflix. Si parte con un “passivo” di 39 milioni: Kevin Spacey, due volte premio Oscar, dall’anno scorso a Hollywood è diventato un impresentabile, con tutte le difficoltà del caso per la serie Tv che – vi piaccia o meno – separa la storia delle serie Tv in un prima e un dopo. Netflix ha deciso subito di liberarserne, facendo morire, come fosse il Bobby di Dallas, il personaggio di Frank Underwood da lui interpretato e cancellando Gore, il biopic sulla vita del romanziere Gore Vidal che stava girando, tra le altre cose, in Costiera Amalfitana. Operazione tutt’altro che semplice perché Spacey, oltre che attore, era produttore esecutivo delle due opere. Negli States non c’è tuttavia problema che non sia risolvibile col portafogli: oneri per 39 milioni per progetti non andati in porto sono stati così più che sufficienti per liberarsi per sempre di Spacey/Underwood. Riuscirà a liberarsene il pubblico? La risposta tocca a Robin Wright, attrice che interpreta Claire Underwood, la vedova dell’ex (sanguinario) presidente Frank e adesso pirmo presidente donna degli Stati Uniti. Ma comunque si parte in salita: tanto per cominciare scendono da 13 a otto le puntate della stagione, perché senza Frank ti tocca sforbiciare un bel po’ il copione. «Underwood o non Underwood, nulla scalfisce l’importanza storica di House of cards per l’industria contemporanea dei media», spiega Massimo Scaglioni, docente di Economia dei media dell’Università Cattolica di Milano. «Grazie a questa serie, Netlix da distributore si è trasformato in produttore di contenuti, ingaggiando una battaglia senza esclusione di colpi con i produttori tradizionali». Era il 2013 e Netflix si aggiudicava, per 100 milioni, i diritti sul romanzo di Michael Dobbs, già oggetto di adattamento a opera di Bbc. È un messaggio a Hbo: «Per la prima volta – sottolinea Scaglioni – mettono sotto contratto una superstar, creano hype, spingono il pubblico ad abbonarsi a un servizio di streaming a pagamento, lo abituano a guardarsi una serie dall’inizio alla fine», inventando di fatto il binge watching. La serie sul lato oscuro della politica Usa costa 60 milioni a stagione e per Netflix rappresenta una svolta: i suoi abbonati, quando la fiction è partita, erano 33 milioni, quasi tutti negli Stati Uniti. Oggi se ne contano 130 milioni dislocati su 190 mercati diversi. Si afferma un modello nuovo: «Mentre Hbo – precisa Scaglioni – lavora come una major, produce e vende all’estero con un processo che va dall’alto verso il basso, Neflix colonizza nuovi mercati e vi produce serie glocal che poi rivende in tutto il mondo». È un nuovo, storico modello che si afferma. E non sarà una stagione in perdita a cambiare la storia.