Il Messaggero, 3 novembre 2018
Vincenzo Manzini e quel codice penale risalente al Ventennio
Nell’ottobre del 1928, esattamente novanta anni fa, Vincenzo Manzini fu incaricato dal ministro della Giustizia, Alfredo Rocco, di redigere la relazione di accompagnamento al codice penale. Due anni dopo, sempre in Ottobre, il Re Vittorio Emanuele III promulgò il codice, che formalmente si chiama ancora codice Rocco: ma che in realtà fu, in larga parte, opera di Vincenzo Manzini.
Perché queste ricordiamo queste date significative e questo giurista illustre? Perché di recente alcuni giornali hanno pubblicato indignati articoli e accorati appelli di lettori che, avendo visto esposto alla stazione di Roma un calendario con la faccia del Duce, si sono risentiti. In effetti può sembrare sconveniente che l’ispiratore dell’omicidio di Matteotti, l’autore delle famigerate leggi razziali, il pugnalatore della Francia nel 1940, il fantoccio di Hitler nella Repubblica di Salò e, non ultimo, il miserabile fuggiasco che cercò di svignarsela travestito da soldato tedesco, sia impunemente ricordato in luoghi pubblici con un messaggio elogiativo. Tanto che, sempre di recente, sono sorte iniziative per sanzionare con il carcere anche chi vende il vino l’etichetta del dittatore. E sono questi paradossi che dovrebbero farci riflettere sulla schizofrenia di questo infelice e meraviglioso Paese. Perché se queste persone, (l’editore, il giornalaio, il vignaiolo) fossero condannate, lo sarebbero in base a un codice che reca proprio il nome incriminato. Non è uno scherzo. Apritene uno, e troverete, in prima pagina, le firme del Re, Capo dello Stato, e quella di S.E. Benito Mussolini, capo del governo. Ma torniamo a Vincenzo Manzini.
LA VITA
Era nato a Udine, il 20 agosto 1872. A ventotto anni era già libero docente. Insegnò diritto e procedura penale in varie Università, ma Padova fu la sua sede prediletta. Aderì incondizionatamente al fascismo, e vulnerò la propria integrità morale scrivendo, in occasione del processo agli assassini di Matteotti, che quest’ultimo se l’era cercata. Accumulò riconoscimenti e onori, e mantenne un’autorità indiscussa anche dopo la caduta del fascismo. Morì a Venezia nel 1957. Il suo Trattato di diritto penale, in vari volumi, ha costituito il fondamento didattico di almeno tre generazioni di avvocati e magistrati. Come Concetto Marchesi, suo collega patavino e stalinista convinto, riuscì a conciliare una profonda onestà personale con un’adesione a un’ideologia sciagurata. Ma mentre gli studi del grande latinista rimasero confinati nella sfera delle belle lettere, quelli di Manzini si tradussero in un codice penale che è ancora in vigore. E per capirne la filosofia, ne citiamo alcuni principi ispiratori, comprensibili anche a chi è digiuno di giuridichese. Nella sua relazione al ministro, e nel suo Trattato, Manzini scrive: «La riforma penale si è naturalmente ispirata alla concezione politico-giuridica dello Stato fascista, mentre il codice precedente era informato ai principi dello Stato democratico». E ancora: «Per la filosofia del fascismo lo Stato è concepito come un organismo, ad un tempo, politico e giuridico, etico e religioso... come un’unità non solo sociale, ma altresì etnica, legata da vincoli di razza, di lingua, di costume, di moralità, di religione». E infine: «La politica (fascista) è la più assidua forza ravvivatrice del diritto... mentre la sovranità popolare è un’impostura democratica». Qui ci fermiamo, perché l’ammirazione che abbiamo per Manzini giureconsulto (come quella per Marchesi umanista) ci trattiene dalla dolorosa indagine sui misteri della coscienza individuale, e sulla incredibile coesistenza, nello stesso cervello, di virtù civile, di genialità tecnica e di scelleratezza ideologica.
LE NORME
I princìpi di Vincenzo Manzini furono trasferiti in norme positive e vincolanti, alcune delle quali rimasero in vigore per decenni dopo la proclamazione della Repubblica e della sua Costituzione. Ricordiamo con raccapriccio i reati contro l’integrità della stirpe, la disciplina dell’aborto, il delitto d’onore e l’adulterio femminile: tutte ipotesi che furono espunte con fatica e dopo lunghi dibattiti dal nostro ordinamento democratico. Tuttavia, questa opera purificatrice è stata sommaria e in parte inefficace, perché l’impalcatura ideologica dello Stato etico, e del regime che lo aveva recepito, è rimasta intatta. Lo è ancora oggi nella legittima difesa, dove chi respinge un’aggressione ingiusta non è punibile.
IL CASO CAPPATO
Come dire: hai commesso un reato, ma lo Stato benevolmente ti scusa. Mentre in un codice liberale dovrebbe esser lo Stato a scusarsi per non aver saputo impedire l’offesa a un suo cittadino. Lo è nell’omicidio del consenziente e nel reato di agevolazione del suicidio, dove c’è voluta le recentissima ordinanza della Corte Costituzionale nel processo a Marco Cappato per rilevare l’incoerenza del precetto e il vuoto normativo che ne consegue. E lo è, più in generale, nel considerare l’individuo non un civis optimo iure, ma poco più di un suddito, perché, come scriveva lo stesso Manzini, «nello Stato fascista sono inesorabilmente bandite tutte le imposture demo liberali... e il legislatore fascista rispetta e promuove solo la pubblica opinione che è pubblico consenso al regime». Come dire che lo Stato, nella sua autocertificazione di monopolio etico, religioso e pedagogico, fa dell’individuo quello che gli pare.
IL MISTERO
Come questo codice sia potuto sopravvivere a settant’anni di Costituzione democratica nata dalla Resistenza è ancora un mistero. Lo è ancor di più se si pensa che il contemporaneo codice di procedura penale, sempre firmato da Rocco-Manzini, è stato sostituito trent’anni fa da quello elaborato dal professor Giuliano Vassalli, decorato eroe partigiano. Ma mentre quest’ultimo codice è stato ripetutamente modificato, riveduto e pasticciato, quello del fascistissimo Manzini campeggia ancora, nella sua sostanziale integralità, sullo scranno dei giudici. Una ragione potrebbe esser questa: che la nostra Costituzione è ispirata da due ideologie, quella cattolica e quella marxista, che proprio liberali non sono, e quindi mentre il codice Vassalli ne era culturalmente estraneo, quello del Manzini, fondato più o meno sugli stessi principi di supremazia della collettività sull’individuo, è con essa più compatibile. Ma questo è un problema che riguarda il legislatore. Per il cittadino normale che trova in stazione il calendario di Mussolini, o in enoteca il vino di Predappio, non deve esserci motivo di indignazione e neanche di sorpresa. Se un domani dovesse finire in tribunale, sappia che la sentenza, pronunciata in nome del popolo italiano, sarebbe fondata sul codice di Vincenzo Manzini, con la firma del Duce.