Tuttolibri, 3 novembre 2018
Gli igloo di Merz come un accampamento nomade
Quando si entra nell’immenso spazio continuo dell’Hangar Bicocca l’impressione è di affascinante suggestione. Come per incanto, in una diffusa atmosfera oscura, emerge un intero villaggio di straordinarie costruzioni semisferiche di varie dimensioni fatte con i materiali più diversi, sapientemente illuminate. Ci troviamo davanti a una sorta di «città irreale», a un incredibile accampamento nomade, con caratteristiche decisamente precarie, silenzioso ma animato da una straordinaria carica di energie immaginifiche. Questo proliferante agglomerato è formato da una trentina di Igloo di Mario Merz, che documentano in modo esemplare tutte le principali elaborazioni di questo genere di lavori emblematici dell’artista poverista. La mostra festeggia i cinquant’anni della nascita dell’Igloo di Giap nel 1968, il primo di una lunga serie di circa centotrenta opere, realizzate spesso come specifiche installazioni ambientali, e esposte in giro per il mondo nei maggiori musei, a Documenta e alle Biennali.
Il curatore Vincente Todoli ha voluto rendere omaggio anche ad Harald Szeemann, ampliando il progetto che il grande curatore svizzero aveva realizzato alla Kunsthaus di Zurigo nel 1985, con la messa in scena di 17 igloo. Nelle sue dichiarazioni, Merz aveva giustificato la scelta di questa particolare e arcaica struttura abitativa evidenziando tre aspetti fondamentali. Il primo è l’abbandono del piano aggettante o murale. Il secondo è l’idea dell’igloo come spazio autonomo, autoportante, presente come semplice semisfera appoggiata a terra. Il terzo è la possibilità di utilizzare questa forma volumetrica come “scheletro” in ferro da vitalizzare con l’utilizzazione di ogni sorta di materiali industriali o naturali (sacchetti di sabbia, , creta, frammenti o lastre di vetro, reti metalliche, tele di iuta, lastre di pietra, fascine di rami, cumuli di giornali) e con scritte e sequenze numeriche luminose al neon, e dagli anni’80 anche con interventi pittorici. Queste strutture assemblate sono diventate dispositivi plastici-architettonici generatori di un ricchissimo ventaglio di possibili significati. L’igloo può essere visto come metafora del rapporto fra dimensione interna ed esterna, non solo dal punto di vista dello spazio di esistenza dell’uomo, ma anche da quello dello spazio mentale e psicologico dell’immaginazione che si contrappone a quello della realtà fisica e sociale circostante. La superficie dell’igloo diventa così metafora della soglia fra mondo virtuale e mondo reale; una soglia mai precisamente determinata ma continuamente segnata da una precarietà e da una complessità di presenze e interferenze del disordine vitalistico della realtà, non controllabile attraverso rigide formalizzazioni e razionalizzazioni.
Tra le possibili fonti d’ispirazione dell’artista per questi lavori, vengono in mente due riferimenti significativi: da un lato la cupola geodetica del visionario ingegnere e teorico Buckminster Fuller (di cui un esemplare, tuttora esistente, era stato installato a Spoleto in occasione del Festival dei Due Mondi del 1967); e dall’altro il progetto utopistico del campo nomade dei Sinti di Alba (del 1958) del situazionista Constant, che Merz conosceva bene. A sottolineare la natura fluida e proliferante di questa visione del mondo, su tutta una parete della navata industriale è stata piazzata in alto una sequenza progressiva di numeri della serie Fibonacci.
Gli igloo sono disposti in modo apparentemente casuale nell’ambiente, ma il visitatore che ci cammina in mezzo può seguire con chiarezza un percorso di tipo cronologico, dai primi Igloo del 1968/69 ai più recenti che arrivano all’inizio del 2000.
I primi lavori hanno scritte al neon di carattere politico come l’Igloo di Giap (la cui cupoletta è istoriata dalla frase «Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza») o Objet Cache-toi (slogan contro il consumismo del Maggio francese). In altri degli Anni 70 troviamo citazioni poetiche, per esempio dai Cantos di Pound (un essenziale igloo coperto da una rete metallica trasparente) o riferimenti alle avanguardie artistiche come in Sul tavolo che penetra nel cuore dell’igloo, dove l’allusione è al famoso manifesto di El Lissitzky Sconfiggi i bianchi col cuneo rosso. Uno dei primi igloo in cui ritorna in gioco la sua pittura espressionista carica di figurazioni primordiali è quello intitolato Architettura fondata dal tempo, architettura sfondata dal tempo (1981), dove una cupola fatta di vetri dipinti si interseca con una grande tela che rappresenta un animale preistorico. Tra gli igloo più spettacolari ci sono quelli da cui fuoriescono pacchi di quotidiani (la realtà della politica, della cronaca, della dimensione effimera della vita), e quelli giganteschi con strutture doppie. Uno stanzone finale, caratterizzato dalla presenza «merziana» di una altissima scala a chiocciola, accoglie un grandioso doppio igloo sormontato da un cervo impagliato (forse un ricordo della cupola della Palazzina di caccia di Stupinigi).