La Stampa, 3 novembre 2018
“I cambiamenti climatici ora investono il Mediterraneo, arriveranno i mini-uragani”
Yacht scaraventati nelle piazze delle città, tratti di spiaggia inghiottiti e alberi spazzati via dalla furia del vento. Il maltempo ha creato scenari che somigliano a quelli post tsunami delle latitudini caraibiche. Ma sono scatti che arrivano dal Ponente Ligure o dalle Valli del Veneto. Come è possibile? «Stiamo assistendo a un’estremizzazione dei fenomeni atmosferici e marini. Il Mediterraneo si sta tropicalizzando», spiega Andrea Bergamasco, oceanografo dell’Istituto di Scienze marine di Venezia e del Cnr. Dal 1992 ha partecipato a numerose missioni oceanografiche e studia i cambiamenti del clima. «Novembre è sempre stato un mese critico dal punto di vista meteo. Ma i fenomeni recenti dimostrano che qualcosa è cambiato».
Professore, cosa sta succedendo al Mediterraneo?
«Dobbiamo pensare ai mari e all’atmosfera come a un sistema integrato, in equilibrio dinamico. L’aumento delle temperature degli ultimi anni ha alterato l’equilibrio. Come conseguenza c’è più acqua in atmosfera, sciolta dai ghiacciai ed evaporata nell’aria. Più acqua equivale a più nuvole, che a loro volta creano più pioggia. La sempre maggiore differenza di temperatura tra aria e mare, poi, dà vita a venti più violenti. Da qui gli eventi estremi».
Quali sono questi fenomeni?
«In primo luogo i grandi quantitativi di pioggia riversati in poco tempo, le cosiddette bombe d’acqua, che sono la prima causa delle piene di fiumi e torrenti. Poi trombe d’aria ed esondazioni dei fiumi. Il tutto in un territorio come quello dell’Italia, ferito e maltrattato».
Quali sono le cause?
«Quella principale è l’innalzamento delle temperature, il cosiddetto riscaldamento globale creato dai gas serra. Anche se i negazionisti si ostinano a snobbarlo, è una realtà e come tale va affrontata».
Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi 20-30 anni?
«Un peggioramento. Assisteremo a un aumento, in frequenza e intensità, di questi fenomeni dirompenti. In un futuro prossimo il problema più grande potrebbe essere quello dei cosiddetti “medicane”, mini-uragani favoriti dall’aumento di temperatura superficiale del mare. In passato di rado si arrivava ai 27 gradi, oggi vengono raggiunti più volte all’anno nei nostri mari. Ma ci saranno anche implicazioni sociali: le condizioni di vita nelle basse latitudini saranno sempre peggiori, innescando migrazioni verso quelle più alte».
Quali sono le responsabilità dell’uomo?
«Sono grandi e gravi. Il dissesto idrogeologico di cui si parla tanto solo in parte è una condizione naturale esistente. Siamo noi ad aver danneggiato il territorio, con costruzioni troppo vicine ai letti dei fiumi e cementificazione. Ma le responsabilità sono anche politiche».
Quali?
«Quando si dà il via libera ai condoni, non si fanno i conti con la natura, che non ha ragione di assecondare le decisioni politiche. In alcune zone è da folli costruire. In secondo luogo la politica non può lasciar cadere nel vuoto gli allarmi della comunità scientifica. Come fa Trump, per esempio. In Italia, poi, manca una coscienza collettiva sui temi ambientali. Dobbiamo essere più attenti a trattare il territorio comune come fosse nostro. Io faccio sempre un esempio. Una persona butta una bottiglia di plastica in mare e pensa: “È solo una bottiglia”. Ma se tutti ragionassimo così, avremmo 60 milioni di bottiglie in mare».
Durante il suo lavoro di campo ha notato le conseguenze del cambiamento climatico?
«Nel ’95 ero in missione con la Nave Italica e non riuscimmo ad arrivare a Capo Colbek, in Antartide: c’erano troppi iceberg e troppo ghiaccio. L’anno scorso siamo ritornati: abbiamo raggiunto il punto più a Sud, senza mai incontrare ostacoli di ghiaccio. È l’evidenza che le cose stanno cambiando. Di recente, poi, con un collega abbiamo filmato il ghiacciaio dei due Forni, in Valtellina, per un documentario: era irriconoscibile rispetto a qualche anno fa. Basta guardare le fotografie degli ultimi 30 anni per rendersene conto».
Come possiamo combattere il cambio climatico?
«Anzitutto riconoscendo che esiste: spesso la comunità scientifica parla ai sordi. Poi bisogna diminuire i consumi di energie fossili che creano i gas serra e aumentare l’utilizzo di energie alternative. Non solo a livello di singoli, ma di aziende. Credo che gli Accordi di Parigi vadano rivisti: servono norme più stringenti a livello globale. Certo se poi un gigante come gli Stati Uniti si sfila, diventa tutto maledettamente complicato. Infine è fondamentale prendersi cura del territorio».