Corriere della Sera, 3 novembre 2018
La satira di «American Vandal», esempio di libertà espressiva
Le sperimentazioni più ardite, le innovazioni più brillanti nell’ambito dei contenuti a Netflix sono di casa. Senza la spada di Damocle degli ascolti (un forte vincolo per la creatività delle reti tv classiche), con il solo obiettivo di fare contenti i propri abbonati con un’offerta ricca, cool e originale, la piattaforma può permettersi di azzardare, con risultati spesso incoraggianti.
Se il suo modello economico reggerà lo dirà il tempo: intanto, questa libertà espressiva e le sue ricadute sulle produzioni sono una vera manna per gli appassionati. Un esempio interessante in proposito è la serie mockumentary American Vandal, di cui è stata da poco pubblicata sulla piattaforma la seconda stagione. Il documentario investigativo dedicato a casi di cronaca è diventato uno dei generi chiave della tv contemporanea, con tutta una serie di codici ormai canonici: le immagini di repertorio fornite dagli inquirenti, le interviste «confessionali» a testimoni ed esperti.
American Vandal prende in giro proprio questo filone, facendo satira su alcuni titoli che hanno fatto la fortuna proprio di Netflix (da Making a Murderer ad Amanda Knox). Si tratta di una fiction realizzata come se fosse un finto documentario investigativo dedicato alla ricerca dell’identità del bullo che ha versato dei lassativi nel pasto della mensa di un liceo privato cattolico, scatenando una comica epidemia.
Il caso è evidentemente grottesco e il metalinguaggio si spreca, non solo sui canoni del documentario ma anche sulle caratteristiche più tipiche del teen drama americano: il liceo come micro-mondo, le rigide distinzioni tra studenti popolari e i «nerd», il rapporto tra adolescenti e adulti (spesso non all’altezza delle aspettative educative dei ragazzi).