Corriere della Sera, 3 novembre 2018
Intervista a Bice Biagi, la figlia di Enzo
Il mondo finisce insieme con la strada che sale a un paesetto di 21 abitanti sull’Appennino tosco-emiliano. Il cimitero è aperto anche di notte. Da 11 anni Enzo Biagi abita qui. «Ho girato il mondo da cronista, ma in fondo non sono mai andato via da Pianaccio», sta scritto sul muro di fronte alla casa in cui nacque, quella con «l’albero dai fiori bianchi» ricordato nel titolo di uno dei suoi 105 libri.
Avrebbe desiderato che sulla lapide fossero scolpite queste parole: «Scrisse quello che poteva, mai quello che non voleva. Amen». Invece si legge solo: «Enzo Biagi, 9.8.1920, 6.11.2007». Lo scrupolo del cronista asciutto è glorificato. Gli tengono compagnia Ido Franci, classe 1912, a sinistra, e Paolo Chili, 1914, a destra. A due passi riposano una accanto all’altra, anche loro nella nuda terra, la moglie Lucia Ghetti, morta nel 2002, e la più giovane delle tre figlie, Anna, stroncata da un ictus nel 2003, a soli 47 anni.
Bice Biagi è la primogenita di Enzo. «Parlo con lui tutti i giorni. Da un lato mi manca, dall’altro c’è sempre. Mi sembra ieri quando la sera facevamo a gara con L’eredità di Carlo Conti. Leggeva le cinque parole e subito imbroccava la sesta». È l’unica in famiglia ad aver scelto il mestiere del padre. Ma con il giornalismo ha chiuso. Dall’11 agosto 2015 fa la nonna. Il nipotino si presenta così: «Mi chiamo Enzo perché avevo un bisnonno».
Sarà contenta: un altro Enzo per casa.
«Quando mia figlia Lucia e il marito Karim mi annunciarono che volevano battezzarlo con quel nome, cercai di dissuaderli: sa di vecchio, siete sicuri? Ma poi pensai che finalmente sarei riuscita a sgridarlo: Enzo, smettila! Una frase che non mi sono mai potuta permettere».
A che età decise di fare la giornalista?
«Non lo decisi. Ero laureata in lettere, davo lezioni di latino. Papà mi disse: “La Rizzoli ha comprato Il Mondo. Quasi quasi chiedo che ti prendano, senza pagarti”. Mi ritrovai in un’accozzaglia di figli e nipoti. C’era anche Francesco Merlo. Dicevano che non era bravo, pensi quanto sono lungimiranti i nostri colleghi».
Fu un esordio duro?
«Sgobbavo tanto per far dimenticare che ero “la figlia di”. Mi è sempre mancata l’ambizione. Da doverista, come papà, volevo solo fare la mia parte».
Però ha avuto una brillante carriera.
«Mi convocò il capo del personale della Rizzoli: “Le offro Playboy oppure Oggi”. Scelsi il secondo, guidato da Vittorio Buttafava, un grande che pochi ricordano. Da direttore di settimanali, non dormivo la notte, avevo paura di sbagliare le copertine. Sa, sono anche molto timida».
Non si direbbe.
«Anche mio padre lo era, nei ristoranti e nei negozi non entrava mai da solo. Da caposervizio al Giornale, quando portavo le pagine a Indro Montanelli, nei corridoi mi venivano le extrasistoli».
Pensa che il giornale di carta sia destinato a scomparire?
«I quotidiani autorevoli e quelli di provincia esisteranno sempre. In campagna, non posso fare a meno di sfogliare Il Resto del Carlino, per vedere chi si è perso nei boschi e anche per i necrologi».
Parla del podere di Sasso Marconi?
«Sì. Era il giochino di papà. Ci teneva ad avere le sue galline, il suo vino, la sua frutta, il suo latte. Andò persino a Linate ad accogliere le sei mucche procurate in Olanda dal padre di Ricardo Franco Levi. Non c’era verso che restassero incinte. Al telefono con un cattedratico di Veterinaria, lo sentii urlare: “Le ingravido io!”».
E a Pianaccio quando andavate?
«Tre mesi d’estate. Papà si chiudeva all’ultimo piano. La fedelissima segretaria, Pierangela Bozzi, con la Olivetti appoggiata sull’asse da stiro, batteva i foglietti di bloc-notes che le passava a getto continuo. Scriveva libri e articoli così, a mano. Vent’anni fa comprai anche la canonica disabitata. Ora le amiche mi chiamano madre badessa».
Ha perdonato Silvio Berlusconi per l’«editto bulgaro» che nel 2002 estromise suo padre dalla Rai?
«Mi sembra una parola così importante... Chi sono io per perdonare? Diciamo che mi ricordo. Quell’anno perse la moglie, perse il lavoro. Non aveva né hobby, né passioni. Fu come togliergli tanto, tanto, tanto... Rachele, figlia di mia sorella Carla, ricorda sempre: “In un giorno vedemmo il nonno diventare vecchio”».
Che cosa direbbe Enzo Biagi dell’Italia governata da M5S e Lega?
«Sarebbe angosciato. Le sue preoccupazioni di allora mi sembrano bazzecole al confronto con ciò che accade oggi. Perché la mia generazione non è riuscita a trasmettere i valori che ci hanno insegnato i nostri genitori? Perché tutto questo odio, questa aggressività?».
Lui diceva: «Senza un punto di vista, che poi è morale, non c’è giornalismo». Quanta morale vede in giro?
«Poca. Come i punti di vista: non mi pare di coglierne molti in Parlamento».
Ha il carattere di suo padre.
«Me lo dicono in tanti. Io sono più paziente. E non ho vissuto solo per il lavoro: anche per la famiglia, per le amicizie, per giocare a burraco. Alle 12.15 della domenica la mamma radunava a pranzo figlie, generi e nipoti. Si mangiava con l’imbuto, perché lui doveva correre nella sede Rai di corso Sempione a seguire le partite di calcio in bassa frequenza. Alla fine interrompemmo la consuetudine».
Poveruomo, dopo tanto lavoro...
«L’unica volta che mi portò a vedere un film avevo 9 anni, Moby Dick, al cinema Missori, ma io avrei preferito Sette spose per sette fratelli. Era fissato con il circo: se arrivava a Pianaccio, ci toccava sorbircelo pure lì. Mi prometteva sempre di accompagnarmi in gita a Venezia. Per fortuna Carla ha sposato Stefano Jesurum, che ha i parenti in laguna, altrimenti non avrei mai visto il Canal Grande».
Qual era la sua miglior dote?
«La coerenza. Per quella, gli perdonavi l’eccesso di permalosità. Avrebbe querelato persino chi scriveva che portava gli occhiali. Mi toccava rimproverarlo. Allora mi sbatteva giù il telefono. Dopo tre ore richiamava. Non chiedeva scusa, ma ti faceva capire che era costernato».
Come vi disse che da Bologna vi avrebbe portate a vivere a Milano?
«Non lo disse: bastò il camion della Gondrand sotto casa. Idem nel 1961, quando traslocammo a Roma perché doveva dirigere il telegiornale. Mi ritrovai iscritta al liceo Mamiani. Certe nostalgie per la nebbia... Altro che ponentino».
Seguiva le figlie negli studi?
«Figurarsi! Ci teneva solo che leggessimo tanto. Ma non sapeva neppure i nomi delle scuole che frequentavamo. Dalle bollette al conto in banca, pensava a tutto la mamma. Che però era anarchica: un giorno severissima e il giorno dopo capace di farci bigiare le lezioni. È stata una diseducazione a corrente alternata».
Comunque, un’avventura irripetibile.
«Sì, papà ci ha regalato una vita straordinaria. Una volta al mese, Giuseppe Prezzolini giungeva a trovarci in treno, da Lugano, con la consorte Gioconda. Mamma gli preparava la crostata di fragole. Lui mangiava quelle e lasciava nel piatto la pastafrolla. Venne a pranzo a casa nostra persino Tommaso Buscetta, con la moglie Cristina e il figlio di 19 anni, del quale non si sapeva neppure il nome. Lo chiamavano Junior. Gli leggevi la tristezza negli occhi. Non poteva avere né identità, né morosa, né amici. Arrivarono in via Vigoni su tre vetture diverse. L’ex boss di Cosa nostra si fece precedere da un fascio di rose. Alla fine lo accompagnai giù in strada. Mentre attendevamo l’auto blindata della polizia, mi disse: “Lo sa che stando qui potrebbe beccarsi una sventagliata di kalashnikov?”. Risalii in casa con la schiena ingessata».
Chi erano gli altri amici più cari di suo padre?
«Morta la moglie, Pietro Garinei passava sempre le vacanze con noi a Pianaccio. La sera si sfidavano a indovinare le canzoni d’antan, intonate da entrambi. Papà aveva una bella voce e battere l’autore di Rugantino lo gratificava. E poi Federico Fellini, Cesare Rimini, Sergio Zavoli, Ottavio Missoni, Paolo Occhipinti, Loris Mazzetti. Ogni mese Ferruccio de Bortoli veniva a trovarlo per due ore di chiacchiere. Ma forse i più cari erano preti».
Preti?
«Però scomodi, come don Primo Mazzolari e padre Nazareno Fabbretti. Don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia, era spesso a pranzo da noi. Vedendo mia sorella Anna in culla, esclamò: “Bella fatica voler bene a questa! Bisogna voler bene a quelli che non si sono partoriti”. Il cardinale Ersilio Tonini, che celebrò il funerale di papà, non ti abbracciava: ti prendeva la testa, la appoggiava sul suo petto e tu sentivi la pace che ti entrava nel corpo. Per me era un santo».
La prima volta che lo incontrai, 30 anni fa, suo padre mi disse: «Mi affascinano gli uomini di fede. Li invidio. Non mi rassegno a pensare che il mio destino sia quello di un lombrico».
«Dieci giorni prima di morire volle confessarsi. Mi telefonò per dirmi che sarebbe arrivato a casa sua monsignor Gianfranco Ravasi, da poco nominato arcivescovo: “Vieni anche tu?”. A me pareva di sognare, perché se c’è un momento di assoluta intimità, penso che sia quello fra penitente e confessore. Rifiutai, ovvio. Poi Ravasi tornò a trovarlo in quella stanza, la stessa dove s’era spenta anche mia madre». (Indica l’ultima finestra a destra al terzo piano della clinica Capitanio, che si vede dal salotto). «E insieme recitammo il Padre nostro, che per papà era la preghiera più bella. Rimase lucido sino alla fine».
Quali furono le sue ultime parole?
«“Bice, e il mio orologio?”. Era un Piaget. Gli promisi che glielo avrei rimesso al polso».
Quando pensa a lui, come lo vede?
«Sorridente, nella sua casa di campagna, seduto sotto il portico».