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 2018  novembre 03 Sabato calendario

Morire di fame in Yemen

Ci volevano un giornalista fatto a pezzi e una bambina pelle e ossa per far schiudere gli occhi del mondo, serviva la casualità di due vittime così lontane e così ravvicinate per convincere Washington a chiedere una tregua ai grandi alleati sauditi che da oltre tre anni e mezzo bombardano lo Yemen come fosse un’unica gigantesca base dei ribelli Houthi del Nord che nel marzo 2015 hanno occupato la capitale Sanaa. Non bastavano i numeri del collasso, che gli stessi Houthi appoggiati dall’Iran sono interessati a mostrare e allargare mettendoci del loro: almeno 15 mila vittime, otto milioni di abitanti che rischiano la morte per fame, due milioni di bambini denutriti di cui 400 mila in condizioni molto gravi, duemila uccisi da una epidemia di colera che ha colpito un milione di persone. 
Le stragi dei bombardieri di Riad, che si riforniscono in volo da aerei cisterna Usa e lanciano ordigni made in Europe e Usa, non hanno risparmiato funerali, matrimoni, scuolabus. Ma non erano sufficienti, come da sole non bastavano le foto di bambini che assomigliano molto ad Amal Hussein, 7 anni, con tutte le sue costole a vista ritratte da Tyler Hicks del New York Times nello sgarrupato ospedalino di Aslam. Per dare la timida sveglia alle diplomazie si è dovuto aggiungere piccolo a grande orrore: la scomparsa di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul. La sua fine spaventosa e la faccia feroce affiorata dietro la maschera della monarchia saudita hanno fatto alzare le sopracciglia e il telefono al ministro della Difesa americano James Mattis, che l’altro giorno ha chiesto l’apertura di un tavolo per i negoziati di pace e una tregua reale nel giro di un mese, richiesta ribadita dal segretario Onu António Guterres.
Se si farà, è tutto da dimostrare: nessuno dei contendenti è messo così bene o così male da cedere per primo. Mantenere l’inferno a cielo aperto serve alla propaganda Houthi come alla macchina saudita che va strangolando (con l’assedio del porto di Hodeida, le infrastrutture bombardate ecc) quel che rimane di un’economia già fragile. Lo Yemen è di fatto un Paese smembrato, come il corpo di Khashoggi, con gli emiratini che controllano il Sud e Al Qaeda pronta a rialzare la testa. Avrà un gran daffare il negoziatore numero uno, Martin Griffiths, 67 anni, britannico proveniente dal settore umanitario, da febbraio inviato Onu per la crisi nell’ex Arabia Felix sul fondo della Penisola Arabica. Griffith ama portare al tavolo anche rappresentanti delle vittime. 
Amal Hussein sarebbe stata una perfetta bambina copertina per i suoi sforzi. Però è morta giovedì, tre giorni dopo aver lasciato l’ospedale dove Tyler Hicks l’aveva delicatamente fotografata. Vomito e diarrea, i sintomi beffardi della malnutrizione, non l’hanno mai abbandonata. Il destino segnato come il suo torace: «Solo ossa e niente carne», aveva detto la dottoressa Mekkia Mahdi all’ospedale di Aslam. Il letto di Amal evidentemente serviva ad altri (forse con maggiori probabilità di sopravvivere). Così la bambina il cui nome vuol dire speranza è stata riportata nel campo profughi, alla sua casa-baracca di plastica e paglia a 4 miglia di distanza.
Era nata nel Nord, non lontano dal confine saudita, da cui centinaia di migliaia di persone sono fuggite per i bombardamenti. I suoi avevano venduto le capre, e a poco a poco sono rimasti senza soldi. I negozi nei villaggi hanno cibo, ma i prezzi sono aumentati del 50% in un anno e la gente non ha denaro. Otto milioni di yemeniti sopravvivono grazie agli aiuti delle organizzazioni umanitarie. Che non possono arrivare a ogni bocca, a ogni mucchietto di ossa, a ogni capanna di plastica e paglia.