2 novembre 2018
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Biografia di Monica Vitti
Monica Vitti (Maria Luisa Ceciarelli), nata a Roma il 3 novembre 1931 (87 anni). Attrice. «Nella sua straordinaria carriera, oltre cinquanta film e tanti premi: 5 David di Donatello come migliore attrice protagonista (più altri quattro riconoscimenti speciali), 3 Nastri d’argento, 12 Globi d’oro (di cui due alla carriera) e un Ciak d’oro alla carriera, un Leone d’oro alla carriera a Venezia, un Orso d’argento alla Berlinale, una Concha de Plata a San Sebastián, una candidatura al premio Bafta» (Arianna Finos). «Sono un’attrice, poi anche una donna» • «Mio padre era romano, quello delle famose sette generazioni, e mia madre era bolognese. […] Mio padre era ispettore del Commercio estero e ci portava ovunque, perché doveva spostarsi per lavoro» (a Gianfranco Gramola). «Monica è la terzogenita di una famiglia borghese, la “femminuccia” come viene chiamata, oppure “smemoratella” o “sette sottane”, dato che, per via della sua freddolosità, si veste a strati. Nasce a Roma e poi vive i suoi primi anni in Sicilia, durante la guerra. La sua non è un’infanzia felice: è testimone dei conflitti familiari, dei silenzi e del ruolo che le viene assegnato in qualità di figlia femmina, una condizione che la costringe a seguire regole rigide e rinunciare alla sua naturale vitalità. A casa non si fanno domande. […] “Ho cercato di sostituire questa mancanza di storia con l’invenzione: non con una bugia, solo con la sostituzione di un fatto con un altro, così almeno mi restava qualcosa”. Una condizione che le trasmette insicurezza e che amplifica il desiderio di attenzione. Recitare si rivela subito “un istinto proprio. Credo che recitare sia una necessità, un bisogno”. “Stavo con i miei fratelli in Sicilia e c’erano i bombardamenti, e noi andavamo nello scantinato. Nello scantinato non si sapeva cosa fare: gente parlava della vita, gente piangeva… Noi avevamo costruito un teatrino: avevamo messo una coperta, poi facevamo i pupazzi, disegnavamo gli occhi, il naso, la bocca e facevamo, parlavamo. Quello è stato il primo spettacolo che io ho fatto”» (Silvia Bottani). «Ho fatto la prima cosa a 14 anni e mezzo perché servivano dei soldi per un orfanotrofio di bambine sordomute. Una mia amica venne a chiedermi se volevo fare una parte in una recita; io non avevo mai visto un teatro, la mia famiglia era molto severa e pensava che il teatro già a vederlo fosse corruzione. Così feci per caso La nemica di Dario Niccodemi. Avevo già questa voce, che mi ha molto aiutata. Dissero subito che ero uno strano fenomeno, una bambina destinata a grandi cose. Io mi ero trovata benissimo e capii che recitare era quello che volevo fare per il resto della vita. I miei genitori dissero di no: dovresti studiare, trovare un marito, avere dei bambini. E io: non voglio fare niente di tutto questo. È stata una lotta dura». «“Mia madre mi disse: la polvere del palcoscenico corrode l’anima e il corpo”. Troppo tardi: Monica Vitti […] aveva imboccato la sua strada e, a poco a poco, una dopo l’altra, aveva iniziato a fare tutte le cose che le erano state proibite: scrivere, “recitare davanti allo specchio, andare a vedere i quadri”. “‘Cosa c’entri tu con quelle cose là?’, mi diceva mia madre: e io, più lei parlava, più mi ostinavo a cercarle”» (Fulvia Caprara). «Da adolescente passa spesso davanti all’Accademia d’arte drammatica di Silvio D’Amico, in piazza della Croce Rossa, e rimane rapita dall’ambiente che spia dalle finestre: “Dal cancello vedevo gesticolare, urlare, ridere, piangere. Vedevo rifare, esagerando, la vita. E volevo far parte di quei pazzi felici rinchiusi nella villa, fuori dalla quotidianità”, racconterà. […] Respinta la prima volta, viene ammessa l’anno successivo, nel 1951. Ma gli esami clinici sono impietosi. Le sue corde vocali non possono reggere alle fatiche del teatro, sentenzia un dottore. In un misto di bluff, rabbia e sapienza drammaturgica, la ragazza avverte che in quel caso scenderà immediatamente in strada a buttarsi sotto una macchina. Il certificato medico negativo viene cestinato» (Andrea Lo Bello). «Così, a ottobre – l’ottobre del ’51 – Maria Luisa varca per la prima volta la soglia dell’Accademia “da studentessa”. […] Per un anno segue le lezioni di D’Amico. Ma è Sergio Tofano il suo vero maestro. È Tofano che guida i suoi primi passi sulle scene dell’Accademia, Tofano che le insegna a non insistere troppo sulla corda drammatica (“Sei un talento… Un talento comico!”). E ancora Tofano che la convince a cambiarsi nome. “Cecia, così non va. Ceciarelli è un nome che non suona bene in cartellone. Cambialo”. In un bar di viale di Villa Massimo, montando e smontando sillabe e sillabe, Maria Luisa diventa Monica. Mo-ni-ca, Monica! Come l’eroina di quel romanzo che ha letto e che sogna di interpretare. “Vitti” invece nasce da Vittiglia, il cognome di sua madre. In cartellone suona bene. Molto bene. […] Nell’autunno del ’52, al Teatro Eliseo c’è il primo saggio: Il cappello di paglia di Firenze. Sei mesi dopo arriva il diploma. È luglio, il luglio del 1953. Insieme a Davide Montemurri, Monica si laurea attrice recitando Delitto e castigo» (Laura Delli Colli). «Dopo l’Accademia, ho fatto subito teatro classico, comico, borghese, e ho scoperto così il più bel gioco del mondo. Avevo capito che recitare era l’unico modo per prolungare l’infanzia». «Entra nel ’53 nella compagnia di Sergio Tofano. […] Non rientra nei canoni femminili del momento, dunque il cinema importante le è precluso. Entra dalla porta di servizio, con piccole parti non accreditate ma soprattutto come doppiatrice. Sia Antonioni che Monicelli utilizzano, prima del suo volto, la sua voce, rispettivamente ne Il grido e I soliti ignoti» (Lo Bello). «Come nelle favole, un bel giorno Antonioni cercava la voce della benzinaia del Grido. Serviva perciò una voce un po’ sfiatata, e la mia era l’ideale. Durante il doppiaggio mi arrivò un suo commento dalla regia che era alle mie spalle. “Ha una bella nuca: potrebbe fare il cinema”. Le sue storie mi somigliavano: così cominciò la mia grande avventura». «È un colpo di fulmine artistico e sentimentale. […] Negli anni Sessanta, il loro cinema dell’incomunicabilità, della nevrosi della coppia, delle inquietudini della donna moderna: ecco L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964): altrettante variazioni di donna. La tormentata Claudia che cerca l’amica tra le isole delle Eolie, la tentatrice Valentina che "ruba" Mastroianni a Jeanne Moreau, la misteriosa e scontenta Vittoria che si fa corteggiare senza entusiasmo dall’agente di cambio Alain Delon e la depressa e tormentata Giuliana, moglie di un imprenditore insoddisfatta della vita» (Finos). «Durante il periodo dei miei quattro film con Michelangelo, ho trovato molto più di un regista. Per me è stato tutto: un padre, un fratello, un amico. Era tutta la mia vita, perché mi sentivo estremamente sicura vicino a lui, poi mi guardava con degli occhi che erano talmente pieni di attenzione…». «Devo agli sguardi di Michelangelo il mio coraggio. Devo alla sua fiducia la mia forza». «Premi su premi, critici estasiati, anche all’estero un trionfo, del resto allargato a tutto il cinema italiano di quegli anni. Regista e attrice vivevano quasi insieme, in due appartamenti uno sopra l’altro con scaletta interna: persone squisitamente private, in tempi in cui i gossip si chiamavano pettegolezzi e parevano molto ordinari, tanto che, quando il sodalizio si estinse, non si seppe davvero perché. Oppure non se lo ricorda più nessuno. Forse tutta quella cinenevrosi li aveva nevrotizzati, forse i tempi erano cambiati, la cineincomunicabilità si era insinuata anche nelle loro vite reali e tutti e due l’avevano finalmente giudicata barbosissima. Di fatto Monica aveva conosciuto, proprio con Il deserto rosso, il direttore della fotografia Carlo Di Palma, che, uscita lei indenne dall’aver lavorato con Mastroianni e con l´allora bellissimo Alain Delon, divenne il suo nuovo compagno» (Natalia Aspesi). «Franco Zeffirelli decide di riportare la sua potenza drammatica sul palcoscenico, dandole il ruolo di Marilyn Monroe nel dramma Dopo la caduta di Arthur Miller, sulla vita e la morte della diva di Los Angeles, al fianco di Giorgio Albertazzi. Nel 1964, un altro incontro artistico fondamentale, quello con Alberto Sordi, ne Il disco volante, storia di un atterraggio alieno in una retriva e poco accogliente cittadina del Nord Italia. Feroce satira di costume diretta da un Tinto Brass ancora lontano dalle scelte che lo emargineranno dal cinema che conta. […] Per paura dell’aereo, rinuncia senza pensarci due volte a importanti contratti all’estero. Ma nel 1966 si lascia convincere ad arrivare fino a Londra per interpretare Modesty Blaise – La bellissima che uccide, tratto dal fumetto di Peter O’Donnell su una ladra passata dalla parte della legge. Alla regia c’è Joseph Losey, celebre autore americano rifugiatosi in Inghilterra per sfuggire al maccartismo. Il film non può dirsi riuscitissimo, ma Monica Vitti ha così l’occasione di cimentarsi, dopo molte figure fragili e problematiche, con un personaggio ultra-emancipato, sia pure fumettistico. È ancora l’emancipazione il tema di fondo della commedia più importante della sua filmografia, che Monicelli le fa interpretare nel 1968, al fianco di uno dei più sottostimati attori italiani: Carlo Giuffrè. Ironia della sorte, per La ragazza con la pistola l’attrice deve tornare a Londra. Assunta Patanè, giovane siciliana, viene disonorata. Non avendo uomini in casa, la madre le ordina di salvaguardare l’onore della famiglia uccidendo personalmente il seduttore, fuggito oltremanica. A contatto con uno stile di vita lontano anni luce dall’arcaico ambiente di provenienza, la ragazza beneficia di una radicale trasformazione. E l’immaginario femminile del nostro cinema si modernizza in un attimo» (Lo Bello). «Accanto ad Alberto Sordi (che soffre molto per lei in Amore mio aiutami) cominciò un sodalizio che li porterà al grande successo di Polvere di stelle del 1973. In mezzo ci sono le collaborazioni con i nostri più grandi registi: Ettore Scola (Dramma della gelosia, accanto a Giannini e Mastroianni), Dino Risi (Noi donne siamo fatte così), Luciano Salce (L’anatra all’arancia), Nanni Loy e Luigi Comencini (due degli episodi di Basta che non si sappia in giro). Negli anni Settanta l’attrice fu diretta per tre volte dal compagno di allora, il direttore della fotografia di Antonioni Carlo Di Palma, passato alla regia. È lei Teresa la ladra, il film di debutto di Di Palma (1973); poi verrà Qui comincia l’avventura (1975), motociclista tuta in pelle e casco integrale nel film a due con Claudia Cardinale (sorta di Thelma & Louise ante litteram); infine la farà diventare una regina di tabarin (Mimì Bluette… fiore del mio giardino, 1976). […] Negli anni Settanta Monica Vitti fa anche alcune incursioni televisive, mentre continua a frequentare il teatro: nel ’74 si misura con due stelle del piccolo schermo come Raffaella Carrà e Mina cantando con loro Bellezze al bagno nel varietà Milleluci, quattro anni dopo recita per la televisione nella commedia Il cilindro di Eduardo De Filippo. Monica Vitti inizia, con gli anni Ottanta, a distillare le apparizioni sul grande schermo, figurando soprattutto nei film diretti dal suo nuovo compagno, il fotografo di scena poi diventato regista Roberto Russo (Flirt, 1983; Francesca è mia, 1986), che dopo 27 anni di fidanzamento sposa nel 2000 in Campidoglio. Di dieci anni prima il suo debutto come regista per il film Scandalo segreto, da lei scritto e interpretato, che le regalò un’ultima grande soddisfazione, il David di Donatello per il miglior esordio. È la storia di Margherita, la stessa Vitti, che riceve in regalo da un amico regista una telecamera molto moderna, automatica, completa di telecomando; la sua vita cambierà radicalmente, e la macchina le rivelerà non solo il tradimento del marito con la sua migliore amica (Catherine Spaak), ma anche la desolazione della propria esistenza» (Finos). Il 14 marzo 2002, a Roma, la sua ultima apparizione pubblica, in occasione della prima teatrale italiana del Notre-Dame de Paris musicato da Riccardo Cocciante: da allora si è ritirata a vita privata, a causa di una malattia neurodegenerativa che ne starebbe obliando la memoria. Vive tuttora a Roma, assistita in casa dal marito e da una badante • «Nella sua vita ha scritto due libri: nel ’93 Sette sottane, autobiografia che prendeva il titolo dal soprannome che aveva da bambina, […] e poi, nel ’95, Il letto è una rosa: “Oggi scrivo non per ricordare, ma per reinventarmi tutto, per cancellare e ricostruire visi e fatti che mi girano intorno e ridono insieme a me; non di me”, dice in quel volume, che è una raccolta di pensieri e ricordi e sogni. […] Un libro in cui rivela segreti: “Quando a 14 anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela, a continuare, solo fingendo di essere un’altra, e facendo ridere il più possibile. Ci sono riuscita in teatro e nel cinema, nella vita molto meno"» (Finos) • Celeberrima, in Deserto rosso di Antonioni, la sua «ormai mitologica battuta “Mi fanno male i capelli”, frase della poetessa Amelia Rosselli, diventata – suo malgrado – una citazione comica. Una battuta che Monica ricorda bene: “Mentre facevo Deserto rosso di Antonioni, mi domandavano: ‘Ma è vero che le fanno male i capelli, come nel film?’. ‘Sì’, rispondevo ‘ma solo il mercoledì e il giovedì’. Loro ridevano e poi smettevano di colpo, senza capire se era uno scherzo o la verità. Che i capelli mi abbiano sempre fatto male, a me sembra molto naturale, cioè mi stupisco che non abbiano fatto male anche agli altri. È una parte del corpo, ha diritto al dolore. Ma intanto qualcuno ha approfittato per etichettarmi: ‘Le fanno male i capelli, poverina: che ci vuoi fare, è alienata’”. “Deserto rosso, come forse qualche lettore sa, è stato ispirato da una mia depressione. Certo, se non ci fosse stato Michelangelo accanto a me, ‘Mi fanno male i capelli’ sarebbe stata solo una frase ridicola. Invece l’artista ci inventa sopra Deserto rosso. Qualunque inezia può essere degna di attenzione. Per un artista, intendo dire: gli altri possono anche giocare a carte”» (Bottani) • «Arriva all’appuntamento con il successo senza ascoltare nessuno, tirando dritto su tutte le sue convinzioni. Rifiuta di modificare la chioma bionda che si è scelta; esclude categoricamente un intervento a quel naso che convince tanto poco i produttori (“Alla fine abbiamo vinto noi, io e il mio naso”, dirà anni dopo). Accetta un solo consiglio, in teatro: cambiarsi il nome» (Lo Bello). «In 35 anni di cinema, un tempo lunghissimo per un’attrice, Monica ha lavorato in 55 film; certe volte ne ha girati anche tre in un anno. E, dal momento in cui ha abbandonato la seriosità (definita da Oreste del Buono “la nefasta ombra di Antonioni”) che lei pareva comunque non prendere sul serio, è diventata grande. Andavamo a vedere i film con lei e Sordi, o Tognazzi, o Proietti, o Manfredi, o Mastroianni (e persino Benigni), perché era allora la sola donna bella cui era concessa quella comicità con cui rivelava alle donne come si poteva ridere di se stesse senza farla tanto lunga, e agli uomini come non prendersi troppo sul serio perché le donne potevano inchiodarli alla loro presunzione virile con il fascino dell’ironia. Spia dei servizi segreti, fata inseguita da un bruto, sposa medioevale, ragazza con la pistola, popolana tra due amori, stella del varietà, Tosca, Ninì Tirabusciò, Mimì Bluette, moglie svitata, moglie cornificata, moglie cornificante, moglie pazza, Monica Vitti non è mai stata una diva, ma una attrice di grande talento, forse la più grande, davvero, del cinema italiano. I registi andavano con lei sul sicuro, Monicelli e Zampa, Loy e Scola, ma anche gli stranieri, da Cayatte a Buñuel a Losey, incapaci però di capirne la leggerezza raffinata con cui ci ha divertito tanto» (Natalia Aspesi) • «Monica ha un’intelligenza professionale che sento affine. È l’attrice ideale per lavorare in coppia. Anzi, direi che è la più brava del mondo: riuscire ad affermarsi in Italia nel genere comico, che è patrimonio maschile, è impresa rara» (Alberto Sordi). «Monica Vitti […] era di un’avarizia mostruosa. Una volta venne a casa con una tortina piccola, ma così piccola, che sembrava la definizione stessa di avarizia» (Franca Valeri) • «Mi sono accorta di avere un talento comico quando davanti ai compagni d’Accademia recitavo ruoli disperati e li facevo ridere. Ho capito solo dopo che era una straordinaria fortuna». «C’era per i comici uomini una tradizione cui rifarsi, dei modelli, anche se rivissuti con grande autonomia. Come attrice comica io non avrei potuto imitare nessuno. In Italia c’erano soltanto le bellissime e le caratteriste (Titina De Filippo, Ave Ninchi, Tina Pica). Un’attrice che fosse fisicamente normale e che sapesse recitare e far ridere non esisteva». «Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza, alla malinconia della vita». «A un certo punto della vita, a mia insaputa, devo aver deciso di dimenticare. Non dimenticare i dolori o gli errori, ma dimenticare fatti, persone, forse solo confondere tutto». «Lasciatemi l’emozione e tenetevi pure la memoria. Io non la voglio, perché è una truffa, e non la si può nemmeno portare in tribunale perché vincerebbe lei. La memoria non è con me, è contro di me. Sono anni che provo ad allontanarla, cancellarla, l’ho anche presa a schiaffi, a spintoni, e lei subisce tutto pur di restarmi in testa come un cappello di carta velina. Io non la voglio, e lei lo sa. Ma qualche volta mi cade in braccio, e mi tocca cullarla. L’ho sentita anche ridere, ieri».