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 2018  novembre 01 Giovedì calendario

Vita di Sylvia Beach, la vera Penelope dell’Ulisse di Joyce

Dirà una testimone dell’epoca che «Sylvia Beach dava l’impressione di essere disposta a farsi crocifiggere per Joyce, all’unica condizione che la cosa avvenisse sulla pubblica piazza». Quanto alla definizione di Adriennne Monnier, sua amica e sua socia, data da Saint-John Perse, «la serva dal gran cuore delle nostre lettere francesi», ricalcata da un verso di Baudelaire, è infelice, ma ha un fondo di verità. Entrambe furono testimoni di un’età d’eccezione e si identificarono con la loro creazione libraria e libresca, la Shakespeare & Company per la prima, la Maison des Amis des Livres per la seconda, fino quasi ad annullarsi. Furono molto povere e felici, in quella Parigi di cui Ernest Hemingway darà conto in Festa mobile: l’unica dove si era poveri senza sofferenza e felici senza fatica.
Ad aprire una libreria, a conoscere Joyce e a divenirne l’editore, Sylvia Beach era arrivata grazie appunto a Adrienne Monnier. Più giovane di lei di cinque anni, già nel 1915 Adrienne ha aperto, al 10 di rue de l’Odéon, un gabinetto di lettura, centro culturale, biblioteca circolante, cenacolo letterario che fin dall’insegna prima ricordata rimanda all’amore per i libri. La frequentano Valéry e Claudel, Gide e Cocteau, Romains e Fargue, Larbaud e Fort, ci vanno i poeti dadaisti, ci andranno i poeti surrealisti, ovvero sempre gli stesi, ma sotto un nome diverso... Sylvia ne varca la soglia nel 1916: ha vissuto tre anni a Parigi, dove il padre, pastore protestante del New Jersey, è in forza alla Chiesa americana, ama l’Europa, è reduce da un viaggio in Spagna. È la nascita di molto di più d’una amicizia: di un sodalizio intellettual-sentimentale.
Nonostante venga dato per certo che quello fra la Monnier e la Beach sia stato un grande amore omosessuale, loro non ne hanno mai parlato. Non ve n’è traccia in The Letters of Sylvia Beach, curate anni fa per la Columbia University da Kei Walsh, che raccoglie anche la sua corrispondenza privata, così come nelle memorie da loro scritte. Quelle della Monnier, uscite postume nel 1960 e intitolate Rue de l’Odéon, sono state tradotte in italiano una decina di anni fa dalla :due punti edizioni. Shakespeare and Company della Beach è stata invece appena riproposta da Neri Pozza (pagg. 282, euro 14,50, traduzione di Elena Spagnol Vaccari, prefazione di Livia Manera). La loro cifra distintiva è una sorta di ironia finto-naïf che concorre alla formazione di una mitologia dell’epoca, il racconto di una «generazione perduta», per usare la definizione di Gertrude Stein, dove fra geni veri e presunti, talenti, fuochi di paglia ed eterne promesse, scorre il meglio della cultura artistica. C’è Paul Léautaud con il passamontagna sotto il cappello che definisce Claudel «un curato», Apollinaire che si lamenta perché in vetrina «non c’è neppure un libro di un combattente», Cendrars alle prese con una rivista che non gli vuole pagare le poesie. Ci sono gli incontri nella casa della Stein e di Alice Toklas, dove le mogli degli scrittori non hanno diritto di parola, ma le amanti sì, i tè in quella di Natalie Barney, «l’amazzone di Parigi», dove si incontrano «signore con colletto alto e monocolo», c’è Scott Fitzgerald che spende l’assegno di un editore per comprare una collana di perle alla moglie Zelda e che lei regala alla ragazza di colore con cui sta ballando in un night club d Montmartre, c’è Hemingway che fa vedere le cicatrici di guerra tirandosi giù i pantaloni in libreria, porta «le due ragazze» agli incontri di boxe e organizza la vendita clandestina dell’Ulisse negli Stati Uniti tramite un amico che vive in Canada.
Partendo dal presupposto, errato, che «le guerre fra scrittori scoppiano abbastanza di frequente, ma di solito finiscono nel nulla», le memorie della Beach, come del resto quelle della Monnier, raccontano soprattutto la superficie levigata di rapporti anche contorti, dove antipatie, gelosie, odi e ripicche la fanno da padrone e alcol, sesso e droga sono merce devastante.
A differenza della sua amica, che aveva un fisico robusto da contadina, voce tonante da montanara e vestiva come una madonna del Rinascimento, Sylvia Beach possedeva una bellezza moderna, androgina e nervosa. Una foto di Berenice Abbott del 1926 inquadra un volto dal profilo marcato, con un taglio di capelli alla garçonne. Indossa un soprabito che è una via di mezzo fra una cerata da baleniere e un impermeabile in pelle: ha 36 anni e per il pubblico americano della Abbott è «l’americana di Parigi».
Quattro anni prima ha stampato l’Ulisse, trasformando la sua libreria nella casa editrice omonima e ora, in quel 1926, negli Stati Uniti cominciano ad apparire edizioni pirata dell’opera. Proibito dalla censura, non protetto da copyright, Ulisse, che gode fama di libro pornografico e scandaloso, è una manna per qualsiasi editore spregiudicato. Viene venduto di contrabbando, al libraio costa 5 dollari a copia ed è rivenduto al doppio. Con 250 dollari al mese a Parigi si vive da signori, ma da anni Joyce campa di crediti e di donazioni, ha moglie e due figli da mantenere, non ha il senso del risparmio. «Spende come un marinaio ubriaco» si dice di lui.
Anche per questo Sylvia Beach è partita all’arrembaggio contro la pirateria made in Usa, ma l’unica sua arma è un manifesto di protesta con in calce i nomi della cultura dell’epoca. Fra quando viene stilato e quando viene pubblicato, alcuni dei firmatari hanno però fatto in tempo a defungere. Di qui la contraccusa che «quella bisbetica virago che fa da segretaria a James Joyce» fa firmare i morti... Tra le personalità illustri, molti membri dell’Académie Française, compreso Hemingway, che ha firmato, ma naturalmente non è accademico. Tra i refusi e Sylvia Beach c’è una corrispondenza di amorosi sensi. La prima edizione dell’Ulisse, 732 pagine, ne conteneva a migliaia e contribuirà alla formazione di una generazione di esegeti del verbo joyciano...