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Alla fine del Settecento, quando Vincenzo Pacetti scrive il suo resoconto dei restauri nella palazzina della villa Borghese, commissionati dal principe Marcantonio IV all’architetto Antonio Asprucci, una delle maggiori discussioni sulla ricollocazione delle statue riguardava il punto di vista in cui porre l’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini. Il riallestimento di quella sala aveva comportato la rimozione del celebre gruppo dalla originaria posizione contro un muro, consentendone per la prima volta una visione a tutto tondo. Oggi siamo abituati a girare intorno al dio e alla ninfa delle Metamorfosi di Ovidio, ignorando di contravvenire alla prospettiva scelta da Bernini per la visione della sua scultura: le due figure dovevano probabilmente dare l’impressione di provenire dal museo e di arrivare di corsa al centro della stanza come al centro di una radura boscosa. Si trattava infatti di un punto di vista studiato con cura, che non consentiva di vagare intorno all’opera ma ne determinava la presenza scenica.
Queste imposizioni nei confronti dello spettatore non mancavano di essere notate. A dimostrazione che per lungo tempo, anche dopo la sua morte, lo scultore, ora celebrato in grandi mostre e perfino al cinema — il film Bernini di Francesco Invernizzi sarà nelle sale il 12, 13 e 14 novembre, sulla scia del successo di prodotti analoghi come quello su Caravaggio — non ha sempre goduto di buona stampa. Anzi, è stato oggetto di vere e proprie stroncature, alcune con un linguaggio sbrigativo che quasi ricorda quello dei social attuali.
Ad esempio, la fissità della Santa Teresa in estasi affliggeva alcuni dei più eruditi visitatori e scrittori di guide fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. In particolare la guida scritta a Roma da Basilius von Ramdhor, pubblicata per la prima volta nel 1787, oltre a descrivere senza alcun riguardo e in maniera satirica alcuni soggetti berniniani, come la Beata Ludovica Albertoni in San Francesco a Ripa, secondo il tedesco affetta da un terribile mal di pancia, e a lamentare le smorfie esagerate e le carni sfatte di molti dei protagonisti (anzi, delle protagoniste) delle sculture berniniane, si concentra sul carattere autoritario nella scelta del punto di osservazione e sulla dipendenza dalla pittura, due elementi destinati a ritornare con una certa costanza nella storia della "sfortuna" berniniana.
Scritte intorno al 1785, queste considerazioni critiche sono solo alcune della tracce che il volume di Lucia Simonato, Bernini scultore. Il difficile dialogo con la modernità, segue con acutezza per cercare di ricostruire le fasi complesse e contraddittorie nell’apprezzamento di un artista celebratissimo dai contemporanei, ma la cui considerazione è stata tutt’altro che indiscussa. È certo, ma non è una considerazione semplicistica, che il confronto con Antonio Canova, all’inizio dell’Ottocento, non giovasse alla figura di Bernini, coinvolto ovviamente nel giudizio negativo sul barocco. Veniva apprezzata e incoraggiata, a proposito delle sculture canoviane che conquistavano il centro delle sale, proprio la possibilità di godere della totalità della visione. Bernini era anche oggetto di attacchi specifici, non solo al modo di scolpire troppo distante da quello degli antichi, ma anche alle sue maniere arroganti e al suo comportamento in generale riprovevole. Come scrisse Pietro Giordani sul finire del primo decennio dell’Ottocento, l’audacia e la magnificenza di alcune delle sue opere convivevano con i suoi costumi superbi, che diventavano molesti per gli altri, in opposizione al “sentire delicatissimo” di Canova e alla sua amabile conversazione.
Ma nel lungo XIX secolo Bernini comincia lentamente a tornare in voga. La culla di questo recupero sembra essere stata la Francia del secondo Ottocento e, in particolare, lo scultore di Valenciennes Jean Baptiste Carpeaux, celebre esecutore di scatenati e festanti gruppi di rilievi decorativi. Un’opera comeLa Danse, che, ci ricorda Lucia Simonato, solo le concitate vicende storiche della Comune di Parigi e poi la morte dell’autore nel 1875 salvarono probabilmente dallo spostamento dall’Opéra, tradiscono la conoscenza di dettagli esecutivi dell’Apollo e Dafne e del Plutone e Proserpina.
Non si tratta solo della definizione dei capelli delle figure femminili, ma anche di un particolare che aveva sollevato letture acute e critiche feroci: le mani affondate nella carne che facevano parlare di compiacimento naturalistico, di asservimento a Rubens, di eccessivo pittoricismo. Questa stessa posizione e soprattutto la riproposizione del binomio Rubens-Bernini, totalmente negativo sul finire del Settecento, fa riguadagnare allo scultore una certa fama nella Francia del XIX secolo.
E, sorpresa delle sorprese: Burckhardt, che aveva criticato senza pietà nel viaggio in Italia le opere di Bernini, dichiara nel 1879 la sua attrazione nei confronti della scultura quasi neobarocca, sensuale e morbida di Carpeaux: «Io avrei molto da obiettare sul suo stile, ma mi ha davvero del tutto stregato: la vita che fuoriesce a forza dal pilastro è onnipotente (…)». Già nel 1875 aveva scritto da Roma che sentiva crescere dentro di sé il rispetto per il barocco, ma ormai il biasimo per quelle dita affondate nella carne e per il loro seicentesco inventore era completamente dimenticato.