la Repubblica, 1 novembre 2018
«Sfruttati con salari bassi». La rivolta degli attori danesi contro Netflix & Co.
Il colosso americano dello streaming sotto accusa in uno dei Paesi europei produttori di serie tv più promettenti. Lo scontro di civiltà è cominciato otto giorni fa, quando il sindacato degli attori danesi, il tostissimo Dansk Skuespillerforbund – fondata nel 1904, è stata una delle prime organizzazioni della categoria nel mondo – ha diramato un comunicato molto duro contro Netflix: non saremo “gli artigiani polacchi” dell’industria globale dei servizi instreaming, protestano attori, sceneggiatori e registi.
Il casus belli è stato l’accordo siglato da Netflix con la Milo Film per The Rain, la prima serie tv prodotta dalla società californiana in Danimarca. Il modello di pagamento utilizzato da piattaforme come Netflix, Hbo e Viaplay, che nel mondo del cinema e della tv tradizionale veniva chiamato di buy- out, non piace ai creativi danesi perché prevede una sorta di compenso” tombale": gli attori rinunciano ai diritti per tutto il periodo di tempo stabilito dai contratti di produzione, a prescindere da quanto un prodotto avrà successo o in quanti paesi sarà visibile. Per questo Netflix e gli altri due servizi distreaming offrono oltre allo stipendio un anticipo sui diritti che va dal 15% al 25% del salario. Troppo poco, dicono gli artisti danesi, un escamotage che consente all’azienda di non pagare un regista o un attore nel caso in cui il suo lavoro abbia un successo superiore alle attese e imprevisto, come ha spiegato al quotidiano Politiken Christina Rosendahl, presidente della Danish Film Directors. Con lei si è schierato il leader dei drammaturghi danesi, Nikolaj Scherfig, accusando Netflix di sfruttare «deliberatamente il fatto che i salari in Danimarca sono molto bassi» proprio perché poi gli utili successivi vengono distribuiti sotto forma di royalties.
È la storia di Benjamin Boe Rasmussen, presidente di Dansk Skuespillerforbund, ma anche un attore noto nel suo paese – è apparso nel cast di due episodi della serie The Killing, una delle serie danesi che hanno avuto più successo negli ultimi anni, trasmessa da Netflix: da quando è andata in onda, ha raccontato Boe Rasmussen, «ho ricevuto l’equivalente del 130% del mio stipendio in royalties». Il vantaggio insomma è chiaro. «In Danimarca, i nostri stipendi sono relativamente bassi perché poi vengono compensati dai diritti che ci spettano su ogni trasmissione». Questo sistema, sostengono le associazioni, è anche alla base della fertilità dell’industria danese delle produzioni tv e cinematografiche perché – non prevedendo gli anticipi – consente anche ai piccoli progetti di vedere la luce e di non restare schiacciati dalle grandi produzioni. Ma c’è anche un pizzico di patriottismo culturale nella protesta di Copenaghen: «Oggi corriamo un rischio collettivo, che salti un solido principio che è stato per anni il fondamento dell’ecosistema per la produzione di contenuti danese», dice Rosendahl. «Anche se vengono prodotte buone produzioni danesi da servizi di streaming, Netflix, ad esempio, non è stata creata per coprire un pubblico danese, ma globale. Questo è chiaro anche dal loro motto: produzioni locali per un pubblico globale». Il timore è che insieme al buon nome delle serie tv finiscano per uscire dal Paese anche gli utili generati dall’industria, e che a pagarne le conseguenze sia il “modello danese”. Denmark First.