L’Economia, 29 ottobre 2018
La nuova tavola a impatto zero
Qual è la scelta personale che può dare il massimo contributo alla salvaguardia del pianeta? Vendere la macchina e muoversi in bici? Installare un tetto fotovoltaico? Riciclare la plastica? Nulla di tutto ciò. La risposta è contenere i consumi di carne. In base a uno studio recente, se l’umanità rinunciasse all’allevamento di bestiame da macello, si ridurrebbe l’uso di terreni agricoli del 75%, un’estensione equivalente a Stati Uniti, Cina, Australia e Unione Europea insieme, senza intaccare le esigenze alimentari della popolazione globale.
Carne e latticini forniscono infatti solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine consumate globalmente, ma utilizzano l’83% dei terreni agricoli e producono circa il 60% delle emissioni di gas serra. In pratica, oltre i quattro quinti delle coltivazioni, comprese quelle strappate alle foreste vergini con la deforestazione, oggi sono destinate al foraggio per il bestiame. Una categoria che domina il mondo animale: il 60% dei mammiferi viventi sulla Terra oggi sono i nostri animali domestici, mentre i loro cugini selvatici sono ormai ridotti a un misero 4% (il restante 36% siamo noi umani).
In base allo studio, pubblicato su Science e guidato da Joseph Poore, dell’università di Oxford, anche il bestiame allevato con i metodi più rispettosi dell’ambiente produce 6 volte le emissioni di gas serra e consuma 36 volte l’estensione di terreno necessario per ottenere la stessa quantità di proteine vegetali, ad esempio da piselli, fagioli o lenticchie. Per non parlare poi degli allevamenti intensivi, i cosiddetti Cafo (concentrated animal feeding operation), che emettono 12 volte più gas serra degli altri.
Lo scenarioLa Fao prevede che da qui al 2050 i consumi di carne aumenteranno del 76%. «La produzione alimentare crea enormi impatti ambientali che non sono conseguenza necessaria dei nostri bisogni, e possono essere ridotti in modo significativo modificando il modo in cui produciamo e ciò che consumiamo», sostiene Poore. Lo studio di Oxford, molto dettagliato, conferma analisi già digerite e convergenti sullo stesso punto: le sorti del pianeta si decidono anche – e soprattutto – a tavola.
L’Ipcc (il gruppo di esperti intergovernativi dell’Onu sui cambiamenti climatici) attribuisce il 24% delle emissioni globali di gas serra direttamente all’agricoltura e alla conversione di foreste e praterie in terra arabile. Se si aggiunge il trattamento degli alimenti, il trasporto, lo stoccaggio, il raffreddamento e lo smaltimento, oltre il 40% di tutte le emissioni dipendono dal modo in cui coltiviamo e mangiamo. L’agricoltura svolge quindi un ruolo cruciale se si vuole raggiungere l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi, come prevede l’Accordo di Parigi.
La seconda rivoluzioneConsiderando poi che già oggi, nei Paesi poveri, oltre 800 milioni di persone soffrono la fame, e che il tasso di denutrizione della popolazione mondiale, in declino per mezzo secolo, negli ultimi anni ha ripreso a salire, possiamo immaginare facilmente che cosa succederà nel 2050, quando la necessità di nutrire 10 miliardi di persone si scontrerà con la carenza di suolo arabile e con le crescenti ondate di siccità.
La prima Green Revolution, avviata negli anni Sessanta dal Nobel Norman Borlaug, ha raddoppiato la produzione globale di grano, mais e riso con l’uso sempre più spinto di pesticidi, diserbanti e fertilizzanti chimici, ma ora si scontra con i propri limiti: l’eccessivo sfruttamento del suolo lo sta esaurendo e l’uso indiscriminato dell’acqua (l’agricoltura beve il 70% dei consumi globali) non è più sostenibile. Da qui nasce la richiesta di una nuova rivoluzione verde, che punti sulla qualità delle coltivazioni per ottenere raccolti più abbondanti con metodi naturali, grazie alla ricostituzione del suolo, oggi bruciato dai fertilizzanti e depauperato da pesticidi e diserbanti. Una rivoluzione che ha bisogno d’innovazione in ogni fase dei processi, dai campi alla forchetta.
Per esempio l’«apertura» dei dati: sapere in tempi rapidi, grazie a H acking for Hunger o alla Global Open Data for Agriculture and Nutrition, se è in arrivo la siccità o la peronospera può decidere della fortuna e della disgrazia di vaste aree del mondo.
C’è anche chi vuole spostare l’agricoltura in città, aumentando il ritmo dei raccolti grazie a un’illuminazione diversa nelle fattorie urbane, come Leo Marcelis dell’università di Wageningen. E c’è chi punta sulle tecnologie di arricchimento della dieta umana con alimenti più sostenibili della carne. In molti casi può anche essere sufficiente far uscire gli alimenti vegani dal loro «ghetto». Semplicemente spostare le polpette vegetali nella stessa sezione degli hamburger, come ha fatto recentemente Sainsbury’s a Londra, ha fatto aumentare sensibilmente le vendite.