La Stampa, 29 ottobre 2018
Se il debito diventa una tassa
Nel luglio 1992, mentre finiva la Prima Repubblica, il governo di Giuliano Amato finanziò parte di una manovra correttiva con un prelievo forzoso: otto mila miliardi di lire di allora, come dire quattro miliardi di euro di oggi. Era il sei per mille dei depositi bancari degli italiani.
«E il modo ancor m’offende». Amato, gli italiani non lo hanno mai perdonato. Un aumento del prelievo tutto sommato modesto, nel Paese delle mille tasse, è rimasto scolpito nella memoria collettiva: lo scippo dei conti correnti.Un economista della Bundesbank, Karsten Wendorff, ha suggerito che la crisi del debito italiano potrebbe essere tamponata con l’emissione di «titoli di Stato di solidarietà» sottoscritti forzosamente dai risparmiatori. Sarebbe necessario mettere in campo il 20% della ricchezza finanziaria degli italiani, affinché «almeno metà del debito italiano possa essere convertito in titoli di solidarietà». Il sei per mille, nel venti per cento, ci sta trentatré volte. L’uscita di Wendorff non aiuta certo a stemperare quel sentimento anti-tedesco che, dai tempi di Monti, pervade molte forze politiche. Gli stessi «sovranisti» italiani sembrano però coltivare soluzioni non troppo diverse. Negli scorsi mesi, si è molto discusso di proposte, per quanto vaghe, per portare le famiglie italiane a riacquistare «il debito in mano straniera».
In buona sostanza, si vorrebbe imporre un vincolo di portafoglio ai risparmiatori: gli intermediari dovrebbero vendere loro prodotti finanziari di cui una certa quota va necessariamente in titoli italiani.
Se i risparmiatori non desiderano acquistare titoli di Stato, perlomeno in quel numero, è perché ritengono che altri impieghi siano più convenienti. Dirottare i risparmi delle persone verso il debito pubblico significa dunque obbligarle ad accettare una remunerazione più bassa: l’equivalente di una tassa.
In questi giorni, altre voci di palazzo parlano di un possibile prelievo forzoso sui patrimoni superiori al milione di euro. Sarebbe una sorta di uovo di Colombo: farebbe un po’ di cassa e si venderebbe come «lotta alle diseguaglianze».Immaginiamo di vincolare un quinto della ricchezza degli italiani all’investimento in «titoli di Stato di solidarietà». Quel quinto della ricchezza degli italiani avrebbe verosimilmente ritorni inferiori a quelli di mercato. Ciò significherebbe meno risorse per le famiglie, meno denaro da imprestare per le banche, meno credito per le imprese.Immaginiamo invece di dover pagare una patrimoniale pari a un quinto dei nostri risparmi. Il guaio è che le tasse non le pagano i «risparmi»: ma uomini e donne, coi loro redditi.Per questa ragione, alcuni di noi dovrebbero scegliere di rimandare l’acquisto della casa nuova, altri di non cambiare l’automobile, altri non potrebbero mandare il figlio alla scuola privata, altri ancora non costruirebbero un capannone nuovo. Se qualcuno avesse sentore anzitempo dell’imposta, ovviamente, si attrezzerebbe come può: portando capitali all’estero o tenendo più contanti in casa anziché soldi in banca. Nulla di tutto ciò aiuterebbe la crescita. Ed è difficile darne la colpa alla Bundesbank.
Per suggerire che l’elevato debito italiano non sia un fattore di rischio per l’Eurozona, da anni i nostri governi ripetono che il risparmio degli italiani è fra i più alti d’Europa. La conseguenza logica di questo curioso bilancio consolidato del Paese è che il patrimonio delle persone diventa il «collaterale» del debito dello Stato. Ovviamente gli attori, le dinamiche e gli incentivi che governano il risparmio delle persone non sono gli stessi che determinano le spese pubbliche. Però lo Stato è quella cosa che non ha bisogno di convincerci a fare qualcosa, ma ci può costringere. Per questo il suo debito può sempre diventare il nostro.