la Repubblica, 29 ottobre 2018
Intervista a Javier Bardem
Sul set di Loving Pablo Penélope Cruz si spaventò davvero di fronte al consorte e collega Javier Bardem immedesimato nel feroce Escobar. Stavolta, girando Tutti lo sanno di Asghar Farhadi, a mettersi paura è stato lui: l’attrice si è sentita male.
«Eravamo in macchina, nel momento in cui il suo personaggio rivela una verità sconvolgente al mio», racconta l’attore durante il nostro incontro. «Penélope ha iniziato ad agitarsi, è entrata in iperventilazione. Abbiamo chiamato l’ambulanza. Niente di grave, per fortuna. Ma ho detto: ehi, andiamoci piano. Eravamo al secondo giorno di quatto mesi di lavoro. Certi film ti rendono vulnerabile, ma Penélope è forte, è riuscita a esporsi emotivamente in quel modo e poi riprendersi».
In Tutti lo sanno (noir sentimentale in sala dall’8 novembre) Penélope Cruz interpreta una spagnola che torna dall’Argentina per un matrimonio e si vede sparire la figlia. Bardem è il fidanzato di un tempo che nel frattempo ha acquistato la fattoria di famiglia e l’aiuta nelle ricerche.
Che sfida è lavorare con qualcuno che si conosce così bene?
«È strano. Da una parte sai che per questo motivo non puoi mentire o usare quei trucchi che incanterebbero un estraneo.
Al tempo stesso devi evitare di cercare l’approvazione di colei che ami: per te è importante, ma interferirebbe con la tua performance. Devi liberarti delle aspettative e andare nudo: “Tu sai chi sono”. E poi c’è anche il meraviglioso sollievo di non dover, una volta tanto, provare nulla a nessuno».
Due figli e sei film insieme.
Il primo set condiviso nel ’92 fu “Prosciutto prosciutto” di Bigas Luna.
«Penélope aveva 16 anni, io 21. Bigas Luna è stato un dono nella vita, un padre per entrambi. Era il mio primo ruolo da protagonista.
Malgrado una madre e un nonno attori, solo su quel set ho scoperto che volevo disperatamente fare questo nella vita. Penélope teneva nascosto il copione ai suoi genitori, non era sicura che avrebbero approvato... magari oggi non lo farebbe, ma allora per noi era una questione di vita o di morte. Davamo il tutto per tutto.
Lo facciamo anche oggi, ma in modo diverso: sappiamo che qualche lavoro arriverà».
A Cannes un giornalista cileno ha scherzato dicendo che lei è l’unico uomo contento di lavorare con la moglie.
E lei l’ha presa malissimo.
«Non sopporto le domande maschiliste. Il mio idolo Juan Diego, l’Al Pacino spagnolo, a una cerimonia di recente ha detto: “Devo imparare a espellere il machismo che c’è in me. Tutti dobbiamo farlo”. È vero. In Spagna, ma non solo da noi, siamo stati educati nella cultura maschilista.
L’uguaglianza deve essere un sentimento naturale riguardo al genere, alla razza, all’orientamento sessuale. Educo i miei due figli come mia madre ha fatto con me.
I miei hanno divorziato che ero piccolo e lei, che faceva l’attrice quando era considerato un mestiere infamante, ci ha cresciuti, noi tre figli, educandoci alla sensibilità, a capire più le cose che abbiamo in comune rispetto a quelle che ci dividono».
Al cinema qualche ruolo di macho l’ha interpretato?
«Sì. Ho fatto un film che si chiamava
Uova d’oro. Racconta una parte della società spagnola che ancora oggi è così, politicamente e socialmente. L’arte e il cinema sono lo specchio della realtà, gli attori devono avere l’umiltà di ritrarre anche chi disprezzano.
Vale anche per Escobar, no?».
Con Penélope Cruz avete girato anche “Vicky Cristina Barcelona”. Lei è tra quegli attori che lavorerebbero ancora con Woody Allen.
«Era il 2007, la situazione legale di Woody era quella di oggi, dichiarato non colpevole in due procedimenti. Quello che è cambiato è il giudizio dei media: il MeToo è importante, è giusto lottare per i diritti delle donne. Si può chiedere di riaprire il processo, di portare altre prove. E se un tribunale lo condannerà, sarò il primo a non lavorare più con lui.
Bisogna riuscire ad avere il distacco dall’emozione, capire che il sospetto non è una sentenza».
Sta preparando una serie Amazon in cui sarà Cortes alla conquista dell’impero azteco.
Che pensa del rapporto tra cinema e nuove piattaforme?
«Sono talmente occupato a star dietro ai bimbi che non ho tempo di vedere la tv. So che mi perdo molto.
Riguardo al conflitto cinema-serie, penso che ci sia spazio per tutto. Ma mi piace che questo film sarà visto sul grande schermo, è stato pensato per quel formato. La sala è la mia chiesa, la condivisione di un film è la mia messa. Detto questo credo molto in questa miniserie ideata da Steven Spielberg: racconteremo il conflitto epico tra due civiltà distanti, il meglio e il peggio della natura umana».
In “Cortes”, come in “Tutti lo sanno”, al centro c’è la lotta per la proprietà.
«La proprietà è tutto, ancora oggi.
Tutti vogliono possedere tutto, le persone, le idee, anche quelle degli altri. Trump vuole tutti i riflettori, in ogni momento.
Avremmo bisogno di gente al servizio dell’equilibrio nel mondo.
Lui pensa solo a se stesso: basta guardare quel che sta facendo in materia di ambiente e riarmo.
La parola d’ordine è possedere, invece di condividere. La proprietà è necessaria per sopravvivere, ma non è necessariamente una buona cosa. In Spagna diciamo: non è ricco chi ha molto ma chi ha bisogno di meno».
Nel film guida un’auto.
Ha finalmente preso la patente?
«Sì. Devi farlo se vuoi portare i bimbi a scuola. E allora ti presenti alla scuola guida: “Sono Javier, vorrei guidare”, e tutti ridono perché sei un vecchio e il tuo istruttore giovane ti vuole impressionare e sfreccia a tutta velocità nel traffico... Sul set ho dovuto guidare quella macchina enorme e scomoda con quattro attori preoccupatissimi dentro: questo è quello che chiamo tensione».