29 ottobre 2018
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Biografia di Hillary Clinton
Hillary Clinton (Hillary Diane Rodham coniugata Clinton), nata a Chicago il 26 ottobre 1947 (71 anni). Politico, del Partito democratico. Ex segretario di Stato degli Stati Uniti (2009-2013), ex senatrice per lo Stato di New York (2001-2009), ex First Lady degli Stati Uniti (1993-2001), ex First Lady dell’Arkansas (1979-1981; 1983-1992). «Su Hillary Clinton si racconta questa barzelletta. Lei torna col marito Bill in Arkansas, e passando davanti ad un distributore dice: “Guarda, quel benzinaio era il mio ex fidanzato!”. Bill fa una smorfia ammiccante, e dice: “Pensa: se l’avessi sposato, invece di fare la First Lady saresti finita anche tu a pompare benzina”. Lei allora si volta, e senza perdere minimamente la calma risponde: “No: lui sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti, e tu ora saresti qui a riempirci il serbatoio”» (Paolo Mastrolilli) • Prima dei tre figli di un piccolo imprenditore tessile e di una casalinga. «I Rodham, i genitori di Hillary, sono una famiglia dove c’è dentro tutto. Il padre Hugh è benestante. Un vero Wasp: bianco, anglosassone e protestante. Burbero e severo. Ma non giusto. Conservatore e razzista. Con l’attenuante che i tempi erano quelli che erano. E pagare meno un lavoratore afroamericano era la norma. La madre Dorothy aveva un’estrazione popolare. Quasi umile. Con genitori anaffettivi e disattenti. Un disastro. Per questo lei cresce con l’idea che i suoi figli avranno affetto e cure. E Hillary ricambia. Studia. Vuole che sua madre sia orgogliosa di lei» (Carlo Baroni). «Da bambina Hillary scrisse alla Nasa chiedendo se poteva diventare un’astronauta. La delusione fu cocente: le risposero che per una donna non era possibile. Molto tempo dopo, quando aveva 27 anni, ricevette un "no" anche dai Marines, che liquidarono la sua richiesta d’arruolamento dicendole che era troppo vecchia ed era miope. E, come se non bastasse, era una donna. […] Hillary è stata presidente di classe alla Maine East High School, membro del consiglio degli studenti e membro della National Honor Society. Quando entrò al Wellesley College fu riconosciuta come miglior diplomata tra i maturandi, si laureò nel 1969 con onore in Scienze politiche e fu la prima studentessa nella storia del college a presentare la cerimonia di consegna dei diplomi: il suo discorso, che ricevette un’ovazione di sette minuti, fu oggetto di un articolo pubblicato dalla rivista Life. […] Hillary ha raccontato che svolse uno dei primi lavori nel 1969, quando andò in Alaska a ripulire il pesce dalla melma ed eviscerarlo. Venne licenziata quando disse che alcuni pesci le sembravano andati a male. In seguito disse che quell’esperienza si rivelò utile per affrontare la vita a Washington. La veridicità del suo racconto, tuttavia, fu più volte messa in dubbio» (Federica Macagnone). «Il percorso politico è tortuoso. Parte con Barry Goldwater. Siamo agli albori degli anni Settanta. Per chi si accontenta di Wikipedia, il candidato repubblicano che sfiderà e perderà contro Lyndon Johnson è solo un fascistoide reazionario. In realtà la sua personalità è molto più sfaccettata. Meno ostile ai diritti di quanto all’epoca venisse rappresentato. Ma erano i tempi in cui dall’altra parte c’erano John Kennedy e Martin Luther King. Una partita impari su quel terreno. Hillary, comunque, è al di qua della barricata. La svolta avviene negli anni dell’università. A Yale, uno degli atenei più prestigiosi. I suoi studenti dicono che a Harvard (l’eterna rivale) si insegna la legge così come è, a Yale come dovrebbe essere. E forse questo resta anche l’obiettivo di Hillary: costruire un’America come dovrebbe essere. Poi arriverà l’incontro con Bill Clinton, all’epoca un brillante studente catapultato a Yale da un paesino sperduto nell’Arkansas, belloccio e ambizioso. Ma anche intelligente: vincerà una borsa di studio per Oxford. Seguiranno il Watergate (Hillary farà parte del collegio di avvocati che studieranno l’impeachment per Nixon) e l’ascesa politica di quello che è diventato il marito» (Baroni). «“Bill mi rivolse per la prima volta la parola nella primavera del 1971. […] È successo così. Io ero seduta in biblioteca, lui era in piedi fuori dalla porta. Mi guardava fisso e io ricambiavo il suo sguardo. A un certo punto pensai che la faccenda stava diventando ridicola, perché ogni volta che lo incontravo sul campus non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e anche lui mi guardava sempre. Così misi giù i libri, uscii dalla stanza e gli dissi: ‘Dato che tu continui a guardare me e io continuo a fissare te, è meglio che ci presentiamo. Mi chiamo Hillary Rodham’. Anche lui mi disse il suo nome. Alla gente in genere dice che non se lo ricorda. Tra di noi è stato amore a prima vista; incontrarlo ha cambiato totalmente la mia vita. […] Sembrava un vichingo. Con quella grande barba bruno-rossiccia e un po’ selvaggia, i capelli lunghi, aveva un aspetto che rimaneva impresso. Si capiva subito che sapeva esattamente che cosa voleva dalla vita”. Per oltre due anni lui le ha chiesto, più volte, di sposarlo e lei si è rifiutata. Per quale ragione? “Sì, è vero. Lo amavo, sapevo che nessuno mi avrebbe resa più felice, sapevo che non avrei mai trovato nessun altro così interessante, eppure esitavo… Forse avevo paura di essere fagocitata dalla sua forza”» (Barbara Walters). «A venticinque anni la vera predestinata sembra lei, e in qualche modo Hillary ne è cosciente. […] Respinge le proposte di matrimonio del futuro presidente. Scala i migliori studi di avvocati a Washington, coltiva la passione politica, spostandosi gradualmente da posizioni conservatrici e un po’ bacchettone verso la difesa dei diritti civili, delle famiglie e dei bambini. A un certo punto Bill decolla e diventa governatore dell’Arkansas. “Ho seguito il cuore e non la ragione”, scriverà Hillary nel momento di lasciare la capitale e trasferirsi nella periferia americana. In realtà è in quel momento che avviene il primo scatto psicologico. La signora Rodham si trasforma in un trattore e comincia ad arare l’Arkansas, la corsia laterale cui si trova confinata. Fino a entrare nei primi 100 avvocati del Paese, facendosi largo tra un milione (proprio così) di colleghi. Basterebbe un’impresa simile per riempire una vita. Ma per Hillary è solo l’inizio» (Giuseppe Sarcina). «Senza la sua presenza difficilmente Bill Clinton sarebbe diventato presidente. Quando nel 1980 non fu riconfermato governatore dell’Arkansas, scalzato dall’onda lunga del reaganismo che fece vincere il candidato repubblicano, fu lei a tirarlo fuori dalla depressione e rimetterlo in pista. E fu lei a costruire la rete di alleanze e a trovare i cospicui finanziamenti che lo porteranno alla Casa Bianca nel 1992. Senza Hillary, Bill sarebbe rimasto un avvocato e un politico locale. Sarà lei a ispirare quella svolta centrista in materia economica, dal sapore vagamente repubblicano, che li porterà ad abbandonare le visioni di sinistra maturate all’epoca della contestazione studentesca a Yale per convergere verso politiche più realistiche. Alla vigilia della prima elezione di Bill, Hillary chiarì che non avrebbe “fatto i biscotti per prendere il tè” ma avrebbe avuto un ruolo attivo nell’esecutivo. Di qui nacque il motto “Prendi due paghi uno” o la definizione di “Billary”, binomio di potere. Fu la prima First Lady a pretendere con forza un ufficio nell’ala di potere dell’edificio della Casa Bianca, e a ottenere il rango di ministro» (Gennaro Sangiuliano). «Nel 1992 aveva rimesso in carreggiata la campagna elettorale di Bill, travolta dalle rivelazioni roventi di Gennifer Flowers – che raccontava di avere una relazione da ben 12 anni con l’aspirante presidente –, dichiarando in diretta televisiva: “Io non sono qui come una donnetta accanto al suo sposo. Se stasera sono qui, è perché lo amo e rispetto e apprezzo quello che lui ha dovuto sopportare e quello che abbiamo dovuto sopportare insieme. E, se questo non basta alla gente, allora, che diavolo, non votino per lui”» (Leda Balzarotti). «Arriva la Casa Bianca per Bill, e si capisce subito che Hillary non si dedicherà al travaso delle petunie. La First Lady interpreta il suo ruolo come fosse un incarico politico. […] Tocca a lei, per esempio, provare a riformare il sistema sanitario americano, cercando di conciliare servizi ed efficienza. Ma il Congresso non la segue. Poi arrivano i guai, le prove più difficili. Prima il caso Whitewater (1994), la storia di una speculazione immobiliare tentata dai Clinton ai tempi dell’Arkansas, ma dopo cinque mesi di indagine i giudici archiviano il dossier. Poi, nel 1998, la macchia indelebile. Bill intreccia una relazione con la stagista Monica Lewinsky e, al di là dei particolari pecorecci che fanno il giro del pianeta tre volte, il leader mente al Paese e (soprattutto, verrebbe da dire) a sua moglie. Alla fine Hillary perdona, ma è forse da lì che si mette definitivamente in proprio. Usciti dalla Casa Bianca, Bill è ormai buono solo per le conferenze. La nuova Clinton si candida al Senato e scopre di avere una popolarità che vive di luce propria. Due mandati in scioltezza e sempre in favore di telecamera in rappresentanza dello Stato di New York, e poi ecco il grande appuntamento: rientrare alla Casa Bianca, ma questa volta dalla porta principale» (Sarcina). «Probabilmente già nel 2003, in piena èra George W., cominciò a pensare alla Casa Bianca. Ci provò nelle primarie del 2008, ma le andò male, pur essendo partita col favore dei pronostici. Sulla sua strada, infatti, si trovò un certo Barack Obama, giovane senatore afroamericano di belle speranze, formidabile macchina da voti in grado di mobilitare i giovani e le minoranze, facendole sognare con sole tre parole: “Yes, we can!”. Per Hillary fu un boccone amarissimo, parzialmente addolcito dalla carica servitale da Obama su un piatto d’argento, quella di segretario di Stato. Incarico che lei ricoprì per 4 anni, guidando la politica estera della Casa Bianca. Non furono anni facili, con la lotta al terrorismo e le sanguinose guerre in Iraq e Afghanistan. Hillary giocò un ruolo attivo nella contestata destabilizzazione di alcuni Paesi del Nord Africa (le famose “primavere arabe”), cui non seguirono regimi stabili. Si scatenarono pericolose reazioni a catena, i cui effetti nefasti ancora oggi sono sotto gli occhi di tutti. Uscita di scena nel secondo mandato di Obama, cominciò con certosina pazienza a riannodare i fili della sua ragnatela, fatta di incontri ad alto livello (Clinton Foundation) e contatti importanti maturati nel corso degli anni. I tempi erano maturi, e nel 2015 decise di rompere gli indugi, candidandosi per la Casa Bianca. Corsa in discesa, all’apparenza, con un Partito democratico che sembrava non volerle porre alcun ostacolo, designandola per raccogliere l’eredità di Obama. Ma un outsider, questa volta non giovane come Obama ma già in là con gli anni, il “socialista” Bernie Sanders, abilissimo nel raccogliere l’ondata di protesta dei giovani (Occupy Wall Street ma non solo), ha messo a serio rischio la nomination di Hillary. Lei si è dovuta impegnare come probabilmente non avrebbe mai immaginato di dover fare per ottenere l’onore – e l’onere – di correre come candidato per la Casa Bianca. Nonostante una formidabile e ben oliata macchina da guerra (ribattezzata dai detrattori la “Clinton machine”), uno staff di oltre 700 persone retribuite più qualche migliaio di volontari, e una fitta rete di fundraising che le ha permesso di raccogliere oltre 380 milioni di dollari, Hillary non è riuscita a tenere testa a un candidato forte e imprevedibile come Trump» (Orlando Sacchelli). Alle elezioni presidenziali dell’8 novembre 2016, infatti, pur ricevendo quasi tre milioni di voti più di Trump in termini assoluti, la Clinton ottenne 77 grandi elettori in meno, vedendo così sfumare per l’ennesima volta l’obiettivo di una vita. Tra le principali ragioni addotte per spiegare tale risultato, oltre all’apparente freddezza dell’ex First Lady e alla ciclica voglia di discontinuità di un elettorato deluso e sfiduciato (incarnata allora da Trump così come otto anni prima da Obama, entrambi campioni d’inesperienza al cospetto della rivale e per questo paradossalmente premiati), il cosiddetto scandalo delle e-mail: «All’ultima curva, dopo una vita trascorsa a sventare le insidie di scandali più o meno fondati, Hillary ha trovato l’ennesimo ostacolo. La decisione dell’Fbi di riaprire l’inchiesta su quello che i giornali Usa hanno battezzato “emailgate” rilancia l’accusa di essere disonesta e bugiarda. “Le mie e-mail? Che cosa vogliono ancora i giornalisti?”, aveva ripetuto più volte in campagna elettorale. Eppure, i giornalisti hanno continuato a chiedere perché lei avesse creato un account al nome di Eric Hoteham, persona inesistente, un nome inventato storpiando quello di un collaboratore, appoggiandosi a un server registrato all’indirizzo della sua villa di Chappaqua. Negli Usa il Federal Records Act prescrive che la corrispondenza elettronica di chi ha un incarico federale debba passare dall’account ufficiale e mai da quello privato. […] Hillary ha violato questa regola, un’infrazione che finora l’Fbi aveva ritenuto una “scorrettezza” ma non un reato penalmente rilevante. […] Nel verbale dell’interrogatorio a cui Hillary è stata sottoposta dagli agenti federali ci sono 39 “non ricordo” dell’ex senatrice, che ha dichiarato di non rammentare quante informazioni classificate siano transitate sull’account privato. Il Dipartimento della Giustizia, che dipende dall’esecutivo, ha chiesto al direttore della polizia federale James Comey di non informare il Congresso della nuova inchiesta per non influenzare le elezioni. Comey, repubblicano ma nominato da Obama, fama di uomo integerrimo, ha ritenuto di non potersi esimere dal darne comunicazione al Congresso» (Sangiuliano). In seguito alla sconfitta, trascorse un periodo di riposo e silenzio insieme alla famiglia nella residenza di Chappaqua. «Tutto è finito dov’era iniziato. Fu al gala del Children’s Defense Fund, grazie a cui migliaia di bambini americani poveri ma di talento possono studiare, che nel 1992 Bill e Hillary Clinton fecero la loro prima apparizione pubblica dopo l’elezione di lui alla Casa Bianca. […] Hillary è tornata nello stesso luogo una settimana dopo la sconfitta subita da Donald Trump, portando con sé i segni, gli umori cupi e i rimpianti di un crepuscolo, ma anche la maestà di una protagonista che è sembrata finalmente liberata dall’ossessione di una vita. È stato probabilmente l’ultimo atto della vita pubblica di Hillary Clinton. Accettare la disfatta non è stato facile, per lei. Raccontano di sfuriate e liti con Bill e crisi di pianto e profondissimi silenzi, nell’intimità della casa di Chappaqua. Qualcosa trapela anche nel discorso di Washington: “Ci sono state volte negli ultimi giorni in cui avrei voluto solo rannicchiarmi con un buon libro, i nostri cani e non uscire mai più di casa”. […] È un dolore acuto, profondo, quello di aver vinto il voto popolare, ma di aver perso la Casa Bianca. […] Cosa farà Hillary Clinton, finito il sogno del potere, svanita la nobile illusione di infrangere il tetto di cristallo della definitiva parità di genere, conclusa la sua eterna corsa alla Casa Bianca? Saprà essere madre nobile del partito? O riprenderà il circuito dei discorsi miliardari che hanno sporcato la sua immagine di campione liberal? È il banco di prova che l’attende» (Paolo Valentino). Nel settembre 2017 ha dato alle stampe un libro, What Happened, in cui cerca di ricostruire le effettive circostanze della sua sconfitta, individuandone però le principali cause in due fattori esterni: le accuse di Comey e dell’Fbi a proposito delle e-mail e le presunte ingerenze di Putin, tramite i pirati informatici al suo servizio, nel computo elettronico delle elezioni. Da ultimo è circolata l’ipotesi che la Clinton possa sfidare nuovamente Trump nel 2021, ma tale possibilità non sembra godere del favore del suo partito, ed è ritenuta improbabile suoi stessi collaboratori • Straordinaria la tempra dimostrata il 22 ottobre 2015, durante l’audizione sul suo operato alla segreteria di Stato in seguito alla strage di Bengasi (11 settembre 2012), nella quale aveva trovato la morte anche l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens. «Undici ore di interrogatorio dei falchi repubblicani alla Commissione sulla strage di Bengasi senza sbagliare una risposta, sorriso gelido (l’opposizione le imputa di non avere reagito tempestivamente al blitz terrorista)» (Gianni Riotta) • Una figlia, Chelsea (1980), da cui ha avuto due nipoti, Charlotte (2014) e Aidan (2016) • «Peccato originale» costantemente imputatole dagli avversari (esterni e interni), l’antica e disinibita consuetudine con potere e denaro. «Hillary Clinton è stata anche avvocato di grido in uno degli studi americani più antichi, il Rose Law Firm, e ha fatto parte dei consigli d’amministrazione di importanti corporation, a cominciare da Walmart, colosso globale della distribuzione. Ha lavorato per Lafarge, multinazionale francese produttrice di manifatture di cemento, la Tyson Foods produttrice di pollame, la Stephens Inc., la Worthen Bank e l’Hussman Media Holdings. Nella sua professione ha guadagnato molto, ma ha sollevato enormi problemi di conflitti d’interesse. […] Bernie Sanders, l’anziano senatore del Vermont che ha conteso a Hillary la nomination democratica, l’ha più volte attaccata per i suoi rapporti con la finanza di Wall Street. E il New York Times ha documentato i suoi rapporti con Goldman Sachs» (Sangiuliano) • Numerosissimi gli aneddoti e le voci sul suo conto. «Hillary che […] al ristorante Gloria di Tallinn fa una gara di bevute che manda sotto al tavolo tutti quanti, compreso John McCain (il liquore era la vodka); Hillary che i compagni d’università chiamavano “The Big Girl” oppure “secchiona” o anche “Occhi di Ghiaccio” o “Sister Frigidaire”; Hillary perennemente in pantaloni, dettaglio che rafforza la tesi che sia lesbica (lo ha scritto Edward Klein in The Truth About Hillary, aggiungendo che Bill Clinton la violentò alle Bermuda nel 1979 mettendola incinta di Chelsea); […] i capelli di Hillary, il cui taglio è stato cambiato una decina di volte almeno; […] Hillary come campionessa di Wall Street, dato che la sostengono tutte le grandi banche» (Giorgio Dell’Arti). Molte e contraddittorie anche le voci sul suo stato di salute, mai del tutto chiarito • «Il sodalizio dei Billary non si è mai interrotto, nemmeno nei momenti più drammatici della loro relazione. Un sodalizio, d’amore, d’affari, di rapporti politici condivisi, che i suoi (molti) avversari hanno sempre descritto come cementato solo dall’ambizione sfrenata e dal desiderio del potere. Né gli scandali in serie che hanno colpito la coppia presidenziale l’hanno mai messa k.o.» (Edoardo Frittoli). «Piace quando perde, ma risveglia odi ancestrali quando vince, o anche solo rischia di farlo. Ammette che “non sono un talento naturale della politica, come Obama o mio marito”, ma cerca di compensare da “secchiona”. Conosce tutti i dettagli dei temi nel dibattito politico, e offre il realismo rassicurante di “un progresso che possiamo realizzare”. […] Dicono di lei che sia “la persona più nota e meno conosciuta al mondo”, perché nessuno sa davvero cosa pensi e cosa provi. “Scripted” è il vocabolo con cui la descrivono i suoi nemici, e non solo. Sembra sempre che stia seguendo un copione, e così risulta innaturale e fredda» (Mastrolilli). «Dopo anni di palcoscenico nazionale, Hillary Clinton è ancora un enigma, un edificio formidabile che sembra non avere nessuna porta, nonostante la si cerchi tante volte. Questa impenetrabilità genera una vasta gamma di sentimenti: non sapendo cosa c’è veramente dentro, gli elettori possono attribuirle sia cose buone sia cose pessime. E questa impenetrabilità spiega perché tanti giornalisti non possono smettere di scrivere di lei» (Jennifer Senior) • «Per la cronaca: essere fatta a pezzi fa male».