La Stampa, 29 ottobre 2018
L’esercito di migranti che attraversa il Messico per raggiungere la terra promessa
«I
mafiosi volevano il pizzo dal mio negozio, ma io non avevo più i soldi per pagarli. Allora un giorno sono entrati e hanno sparato a mia moglie Marta, che stava al bancone. Sei colpi in faccia, per sfigurarla».
E poi? «Durante il funerale sono venuti da me, e mi hanno detto: “Julio, questo è solo l’inizio. Se non paghi, la prossima volta tocca ai tuoi figli”. Così, quando ho saputo della carovana, ho raccattato quattro cose e sono scappato a piedi con i miei bambini».
La storia che Julio Garcia mi racconta davanti al municipio di San Pedro Tapanatepec, dopo aver camminato per oltre mille chilometri dal Guatemala fino allo Stato messicano di Oaxaca, è uguale a tante altre che senti dai disperati della carovana in viaggio verso gli Stati Uniti. Una sfida politica a Trump, senza dubbio, magari anche un po’ manovrata, ma certamente il grido di dolore di una regione arrivata davanti ad un punto di non ritorno.
La carovana è partita circa un mese fa in Honduras, e lungo la strada ha raccolto poveracci da Guatemala, Nicaragua, Salvador e altri Paesi dell’America Centrale. Bartolo Fuentes, un politico honduregno di sinistra, ha ammesso di averla organizzata, ma non può dipendere tutto da lui. L’amministrazione Trump sospetta il Venezuela di averla finanziata, e persino i democratici, che però così si sarebbero sparati nei piedi, rilanciando l’emergenza delle migrazioni proprio alla vigilia del voto Midterm del 6 novembre. Il presidente poi, senza fornire prove, ha detto che in questo esodo di circa diecimila persone «si nascondono dei mediorientali», cioè presunti terroristi che sperano di penetrare gli Usa infiltrandosi tra gli stremati in cerca di asilo.
Per raggiungere la carovana parto da Tapachula, la cittadina al confine col Guatemala dove i migranti hanno attraversato la frontiera. La polizia messicana al principio ha cercato di fermarli, ma poi ci ha rinunciato. Percorrendo in auto gli stessi trecento chilometri che loro hanno fatto a piedi, tra le montagne del Chiapas che un tempo erano il regno della guerriglia zapatista del Subcomandante Marcos, incontro almeno sette posti di blocco fissi di polizia ed esercito. In tre vengo fermato e fotografato, mi chiedono i documenti e dove vado. In altre parole, se il presidente Peña Nieto avesse voluto bloccare la carovana avrebbe potuto, ma ha scelto di non farlo. Primo, perché non voleva scontri che avrebbero infangato l’immagine del suo Paese; secondo, perché non ritiene di poter negare il diritto delle persone a spostarsi, emigrare, cercare una vita migliore. Quindi ha proposto il programma «Estas en Tu Casa», che offre permessi di lavoro temporanei e assistenza ai migranti che restano in Messico, negli Stati di Chiapas e Oaxaca. Meno di mille hanno accettato, e ancora meno sono tornati indietro.
Julio Garcia spiega perché il compromesso è impossibile: «Ma come fa Trump a dire che noi siamo gli invasori? Con tutto il rispetto, suo nonno è immigrato illegalmente dalla Germania un secolo fa, mentre la mia famiglia vive in America da quando abbiamo memoria». Lui conosce queste dinamiche perché è cresciuto a Los Angeles: «Guidavo i camion, ma una volta mi hanno beccato che avevo bevuto. Allora sono tornato in Guatemala per farmi una famiglia. Ho una bambina e un bambino di un anno e tre mesi. Gestivo con mia moglie un negozio che vendeva biancheria di Victoria’s Secret, fino a quando non l’hanno ammazzata».
Juan Rodriguez è venuto a piedi dall’Honduras, portando la moglie e il figlioletto Jonathan di un anno. Ma perché esporre un bambino a rischi così grandi? «Nel mio Paese – risponde – gli unici posti di lavoro disponibili sono quelli con i trafficanti di droga. La violenza governa. Non ne potevamo più, non c’erano alternative a fuggire». Juan storce la bocca, quando gli ricordo che Trump accusa i narcos di aver infiltrato la carovana: «Ma vi sembra possibile che per consegnare le loro dosi facciano duemila chilometri a piedi? Dai, solo un disperato fa come me».
Jeff Valenzuela, leader dell’organizzazione Pueblo Sin Fronteras, smonta invece il sospetto dei mediorientali: «Giuro di non aver visto neppure un musulmano, da quando ho iniziato a accompagnare la marcia. Ma poi non avrebbe alcun senso. Vi pare che i terroristi, dopo aver addestrato uno di loro per una missione negli Usa, lo mettano a rischio facendolo andare a piedi per duemila miglia verso il confine? Sperando cosa? Di entrare nascosto tra la gente di una carovana che sta attirando l’attenzione di tutto il mondo?». Sulla storia dei criminali, invece, il portavoce Alejandro Martinez del Nicaragua ha una sua teoria: «Alcuni sono pagati per infiltrarsi, creare problemi, e metterci in cattiva luce. Ieri sera, per esempio, si è diffusa la voce che un ragazzo aveva cercato di rapire un bambino. C’è stata una rissa, ma non era vero. Intanto però noi abbiamo fatto la figura dei delinquenti».
Nessuno dice chi ha organizzato la marcia, e tutti giurano che è stata spontanea. Infatti un’altra si è già messa in cammino dal Guatemala ed è arrivata al confine. Molti gruppi però la stanno accompagnando, un po’ per aiutarla, e un po’ per usarla a scopi politici. Jeff Valenzuela giura che «noi siamo tutti volontari e nessuno ci paga. Pueblo Sin Fronteras è un’associazione che ha sede negli Usa e in America Latina, nata con lo scopo di aiutare i migranti. Non rivendichiamo di aver organizzato la carovana, ma la sosteniamo». Poi ci sono i rappresentanti dell’Ufficio per i diritti umani del governo messicano, e i volontari della Secretaria de Salud, come il medico Manuel: «Forniamo l’assistenza sanitaria a chi ne ha bisogno. Le patologie prevalenti fra i membri della carovana sono fratture, ferite, malattie respiratorie e problemi gastrointestinali». Il sole poi brucia dalla mattina alla sera, sulle montagne verdi tra Chiapas e Oaxaca, e quindi «dobbiamo garantire che i bambini siano idratati. Altrimenti si muore». Il cibo, invece, lo dona la gente dei villaggi attraversati: tacos, tamales, quello che c’è sulle tavole delle loro case.
Poco prima di mezzogiorno si riunisce il comitato che decide le prossime mosse, e Martinez annuncia: «Domattina alle tre ci rimettiamo in marcia, per andare a Santiago Nilpetec», un paesino circa cinquanta chilometri a Nord di qui. Valenzuela spiega: «L’obiettivo è arrivare a Città del Messico, per una discussione con il governo riguardo le politiche dell’immigrazione e l’accesso al confine con gli Stati Uniti. Alcuni forse accetteranno le offerte di asilo messicane. Gli altri poi decideranno se proseguire verso la California, l’Arizona o il Texas».
Julio Garcia non teme i soldati che Trump minaccia di mandare alla frontiera: «E cosa faranno? Al massimo ci spareranno addosso. Ma questo già succede a casa nostra con i mafiosi, e quindi non abbiamo nulla da perdere a provarci». Julio poi aggiunge in perfetto inglese: «Sono cresciuto in California, e capisco che il presidente usa la nostra carovana a scopi politici, per mobilitare la sua base in vista delle elezioni Midterm con la paura dei migranti. Ma io ero uno di loro, e intorno a me vedo solo poveracci in cerca di una vita decente. Riuscirà Trump a resistere a tutte le pressioni interne e internazionali, quando noi arriveremo al confine? Magari allora ci penserà il Canada a salvarci, e gli Stati Uniti faranno di nuovo la figura mondiale del paese fatto di immigrati, ma senza cuore verso i migranti, come è già successo quando hanno internato i bambini separati dai loro genitori alla frontiera. Quanto durerà Trump, così? Fino a quando la maggioranza degli americani continuerà ad appoggiarlo, capendo che non c’è alcuna minaccia da parte nostra? Non siamo né terroristi, né narcotrafficanti, né stupratori, tranne qualche criminale pagato per rovinare la nostra immagine. Poveri sì, ma persone decenti che vogliono solo lavorare onestamente, per dare alle loro famiglie un futuro. Come tutti i cittadini americani, che in un modo o nell’altro sono tutti figli o nipoti di immigrati illegali, incluso Trump. Lui si comporta in maniera crudele contro persone che cercano un’esistenza migliore, perché così guadagna voti. E vuole anche ridurre l’immigrazione legale, quando gli Usa ne avrebbero bisogno». Maria Ramirez, portavoce di un gruppo di donne partite dall’Honduras, stringe la «Sacra Biblia» e abbraccia sua figlia: «Dateci un percorso legale per entrare, e vi dimostreremo chi siamo. Oppure aiutateci a contrastare violenza e povertà nei nostri Paesi, e resteremo. Ma dite a Trump che stiamo solo inseguendo il nostro sogno».