il Giornale, 29 ottobre 2018
L’ambasciatore Pietromarchi che tenne testa ai tedeschi
Francesco Perfetti
Il generale Giuseppe Castellano nel suo volume di memorie Come firmai l’armistizio di Cassibile (Mondadori, 1945) scrisse che all’indomani della seduta del Gran Consiglio del 25 luglio che aveva portato alla liquidazione di Mussolini e alla nomina di Pietro Badoglio a capo del governo c’era un solo personaggio «all’altezza della situazione, lucido di mente, non impaurito, con un concetto preciso e una decisione ferma». Quest’uomo era un diplomatico della covata di Galeazzo Ciano, il conte Luca Pietromarchi (1845-1978), col quale Castellano condivideva molte idee e soprattutto un progetto preciso per salvare l’Italia dal caos: «Rompere l’alleanza, ma non deporre le armi, non arrendersi, chiedere il concorso dell’attuale nemico nella lotta comune contro i tedeschi». I due stilarono insieme un promemoria da sottoporre agli angloamericani come documento orientativo per aprire una trattativa per l’armistizio e per una nuova alleanza. Fu poi il solo Castellano a recarsi a Lisbona ad agosto per intavolare le trattative: accolto con diffidenza dai diplomatici italiani, e senza sapere una parola d’inglese, supportato dal console, riuscì – secondo le istruzioni del capo di Stato Maggiore Ambrosio – a illustrare agli Alleati la situazione militare e spiegare che l’Italia non avrebbe potuto sganciarsi dai tedeschi senza il loro aiuto. E, infine, riuscì a portare in porto le trattative che si conclusero il 3 settembre con la firma, a Cassibile, sotto una tenda all’ombra di un ulivo, dell’armistizio.
Mentre si svolgevano questi fatti, Pietromarchi continuava a Roma, in tutte le sedi, come testimoniano gli appunti contenuti nei suoi diari, a tessere una sottile trama per caldeggiare l’uscita dell’Italia dal conflitto, lo sganciamento dai tedeschi e la predisposizione di un piano per evitare la prevedibile vendetta nazista. Purtroppo i suoi contatti diretti con Castellano furono interrotti dagli avvenimenti ed egli apprese, come tutti, dell’armistizio solo l’8 settembre quando il generale Eisenhower ne dette notizia da Radio Algeri. Quello stesso giorno, egli registrò sulle pagine del diario la sua idea secondo la quale il governo italiano avrebbe dovuto inviare a quello tedesco una nota esplicativa delle ragioni che consigliavano di cessare ogni resistenza: il governo italiano, si legge, «ha tenuto fede all’alleanza ultra vires. Sarebbe mal ricompensare i sacrifici dell’Alleato fare del suo territorio il campo di battaglia. L’Italia è perciò in diritto di chiedere alla Germania l’evacuazione del proprio territorio. Ove ciò non avvenisse sarebbe giustificato che l’Italia provvedesse coi suoi mezzi a liberarlo. Una nota di tal genere metterebbe in buona luce le ragioni dell’Italia e riscuoterebbe l’approvazione dell’opinione pubblica mondiale». Quando, però, conobbe le clausole dell’armistizio, Pietromarchi fu sconvolto come si capisce da quanto scrisse il 12 settembre sul diario: «Resa di tutto ciò che abbiamo, compreso l’onore. Non ci rimane che la servitù, l’onta e il disprezzo del genere umano».
Pietromarchi non volle aderire alla Repubblica sociale sia per fedeltà al «Re che rappresentava il Paese» sia per non appoggiare «un governo che aveva portato il Paese al disastro». Egli non aveva preso parte a nessuna delle congiure poste in essere per portare al crollo del regime, anche se da tempo si era convinto della necessità per l’Italia di uscire dall’alleanza con la Germania e, in prospettiva, di giungere a una soluzione politico-istituzionale fondata sul rilancio della monarchia sabauda senza, peraltro, che ciò significasse abbandonare quell’essenza autoritaria del fascismo, che, egli, da vecchio conservatore, apprezzava. Tuttavia, più che nella Corona, egli confidava, in chiave antitedesca, sul Vaticano. Tra l’autunno del 1942 e l’inizio del 1943 ebbe colloqui con monsignor Giovanni Battista Montini e con Pio XII nel corso dei quali si parlò, fra l’altro, dei timori per la possibile trasformazione dell’Italia in un teatro di guerra e per la salvaguardia di Roma. Nel suo diario Pietromarchi il quale, da capo dell’ufficio che si occupava di armistizi e territori occupati, era impegnato da qualche tempo in una coraggiosa iniziativa per impedire la consegna di migliaia di cittadini italiani e di ebrei jugoslavi ai nazisti appuntò un singolare giudizio di Pio XII sul fascismo: «Ero in Germania mi dice il Papa quando il fascismo giunse al potere. Avevo la sensazione da lì che il Paese stesse sull’orlo dell’abisso. Il fascismo lo ha salvato. Ha fatto poi tante cose buone per la famiglia, per la scuola. E poi la Conciliazione. Già, quando parlo della famiglia e della scuola intendo nel quadro della Conciliazione». Un giudizio che il diplomatico, ormai su posizioni antitedesche, condivise ma precisando, rivolto al Pontefice: «Il fascismo è stato un movimento originale e costruttivo fino al momento degli accordi con la Germania». Sono parole rivelatrici di un sentimento ormai largamente diffuso anche in certi ambienti fascisti.
Alla figura di Luca Pietromarchi è stato ora dedicato da Gianluca Falanga un bel volume biografico – Storia di un diplomatico. Luca Pietromarchi al Regio Ministero degli Affari Esteri (Viella) che, attraverso la consultazione di fondi archivisti pubblici e privati, tratteggia un ritratto convincente, a tutto tondo, di uno dei più importanti esponenti della diplomazia italiana del secolo scorso. Nato a Roma nel 1895, Luca Pietromarchi (che sarebbe morto nel 1978, dopo essere stato, fra l’altro, nell’Italia postfascista, ambasciatore a Mosca nel periodo del discusso viaggio di Gronchi in Urss) proveniva da una famiglia aristocratica della «nobiltà nera». Entrato nella carriera diplomatica nel 1923 ebbe una serie di incarichi importanti tra i quali la guida, a partire dal 1939, dell’Ufficio guerra economica. Fu lui a inviare a Mussolini un celebre rapporto nel quale venivano illustrate le conseguenze dannose che l’entrata in guerra avrebbe avuto per l’economia italiana.
Il volume di Falanga, autore in passato di un altro eccellente lavoro sugli ambasciatori italiani a Berlino dal 1933 al 1945, ripercorre con finezza analitica e con equilibrio tutte le tappe della carriera di Pietromarchi durante il periodo fascista facendo vedere come quest’uomo, in una posizione di rilievo decisionale all’interno della macchina che gestiva la politica estera, non fosse affatto un zelante servitore del regime ma una personalità indipendente guidata da profondo patriottismo. Come dimostrarono, appunto, le vicende della «congiura diplomatica» dell’estate 1943.