Robinson, 28 ottobre 2018
Polvere alla polvere, un racconto di Lucia Berlin
Michael Templeton era un eroe, un adone, una star. Un eroe vero, un bombardiere della Raf pluridecorato. Tornato in Cile dopo la guerra, era stato un giocatore di punta della squadra di rugby e di cricket del Prince of Wales. Correva con la sua Bsa per la squadra britannica di motociclismo e aveva vinto il campionato per tre anni. Non aveva mai perso una gara. Vinse anche l’ultima, prima di uscire in testa-coda e schiantarsi contro il muro. Aveva procurato un posto a Johnny e me in tribuna stampa. Johnny era il fratello minore di Michael e il mio migliore amico. Idolatrava Michael quanto me. All’epoca Johnny e io eravamo sdegnati da qualsiasi cosa e disprezzavamo quasi tutti, in particolare insegnanti e genitori. Addirittura ammettevamo, con una nota di dileggio, che Michael era un mascalzone. Però aveva stile, prestigio. Tutte le ragazze e le donne, anche quelle anziane, erano innamorate di lui. Una voce lenta, bassa e lenta. Accompagnava Johnny e me alla spiaggia di Algarrobo. Sfrecciava sulla sabbia dura e bagnata, disperdendo stormi di gabbiani, le cui ali facevano più chiasso del motore, dell’oceano. Johnny non mi prendeva in giro perché ero innamorata di Michael, mi dava fotografie e ritagli di giornale oltre a quelli che aiutavamo sua madre a incollare sugli album.
I suoi genitori non andarono alla corsa. Erano al tavolo della sala da pranzo a prendere tè e biscotti. In realtà il tè di Mr Templeton era rum, nella tazza blu. La madre di Michael era in lacrime, preoccupatissima per la gara. Mi porterà alla tomba, disse. Mr Templeton disse che sperava che Michael si spezzasse quel suo stupido collo. Non era solo per la corsa... erano più o meno le loro conversazioni quotidiane. Anche se era un eroe, Michael non aveva ancora trovato lavoro a tre anni dal suo ritorno dalla guerra. Beveva e scommetteva e si cacciava in guai seri con le donne. Telefonate bisbigliate e visite notturne di padri o mariti, porte sbattute. Ma le donne erano sempre più attratte da lui e la gente addirittura insisteva per prestargli i soldi. Lo stadio era gremito e festoso. I motociclisti e i meccanici ai box erano italiani, tedeschi, australiani, affascinanti e focosi. I favoriti erano la squadra britannica e gli argentini. Gli inglesi montavano Bsa e Norton; gli argentini Moto Guzzi. Nessuno dei concorrenti aveva l’eleganza di Michael, la sua nonchalance da pilota dell’aeronautica. Quello che voglio dire è che nonostante lo choc della sua morte, nonostante la motocicletta in fiamme, il sangue di Michael sul muro di cemento, il suo corpo, le grida e le sirene, ogni cosa era pervasa dalla sua particolare, spensierata noncuranza. Era la sua ultima gara, e l’aveva vinta. Johnny e io non parlammo, né del terrore, né del dramma.
La sala da pranzo a casa era affollata e rumorosa. Mrs Templeton si era arricciata i capelli e incipriata il viso. Stava dicendo che l’avrebbe portata alla tomba, ma in realtà era molto vivace mentre preparava il tè, passava gli scones e rispondeva al telefono. Mr Templeton continuava a ripetere: “Gliel’avevo che si sarebbe rotto quel maledetto collo! Gliel’avevo detto!”. Johnny gli ricordò che glielo aveva augurato. Era eccitante. Nessuno tranne me aveva fatto visita ai Templeton per anni, e adesso la casa era gremita. C’erano i giornalisti di Mercurio e Pacific Mail. Il nostro “album di Michael” era aperto sul tavolo. La gente in tutta la casa diceva eroe e principe e tragico spreco. Gruppi di splendide ragazze erano al piano di sopra e di sotto. Ce n’era sempre una che singhiozzava mentre altre due o tre la consolavano e le portavano i fazzoletti.
Johnny e io mantenemmo il solito atteggiamento di giocoso dileggio. Non ci eravamo davvero resi conto che Michael era morto, quello successe solo sabato sera dopo il funerale. Era il momento in cui di solito ci sedevamo sul bordo della vasca mentre lui si radeva canticchiando Saturday night is the loneliest night in the week. Ci parlava delle sue “pollastrelle”, elencandone gli attributi e gli immancabili e buffissimi difetti. Il sabato dopo la sua morte ci sedemmo dentro la vasca. Non piangemmo, restammo seduti lì a parlare di lui.
Fu divertente, però, guardare l’agitazione prima del funerale, le rivalità tra le fidanzate in lutto. La cosa più sorprendente fu il modo in cui l’intera colonia britannica di Santiago decise che Michael era morto per il Re. Gloria all’Impero, scrisse il Pacific Mail. Mrs Templeton era piena di energie, ordinò a noi e alle cameriere di battere i tappeti e lucidare le ringhiere e cuocere altri scones. Mr Templeton se ne stava seduto con la sua tazza blu borbottando che Mike
non aveva mai messo la testa a posto, che era destinato all’inferno.
Il giorno del funerale, mi permisero di uscire da scuola. Avrei potuto non andarci, ma c’era un test di chimica alla seconda ora. Dopo mi tolsi il grembiule e mi diressi al mio armadietto. Ero molto solenne e coraggiosa.
Ci sono cose di cui la gente non parla. Non intendo le cose difficili come l’amore, ma quelle imbarazzanti, come il fatto che i funerali a volte sono divertenti o che è eccitante guardare bruciare gli edifici. Il funerale di Michael fu magnifico.
A quei tempi i carri funebri erano ancora trainati da cavalli. Enormi carri scricchiolanti trainati da quattro o sei cavalli neri. I cavalli avevano i paraocchi ed erano coperti da una spessa rete nera con le nappe intrise della polvere dalla strada. I conducenti indossavano marsina e cilindro e avevano il frustino. Tenendo conto dello status eroico di Michael, molte organizzazioni avevano contribuito al funerale, perciò c’erano sei carri funebri. Uno per il corpo, gli altri per i fiori. I convenuti al funerale li seguirono fino al cimitero a bordo di auto nere. Durante la funzione alla ( Alta) Chiesa Anglicana di Saint Andrew, molte delle ragazze tristi svennero, oppure erano talmente sconvolte che fu necessario allontanarle. Fuori, i conducenti smilzi ed eleganti fumavano sul marciapiede con il cilindro in testa. C’è chi associa sempre il profumo inebriante dei fiori ai funerali. Per me deve essere mescolato all’odore di letame di cavallo. All’esterno erano parcheggiate oltre cento motociclette che avrebbero seguito il corteo fino al cimitero. Abili giochi di motore, scoppiettii, fumo, ritorni di fiamma. I conducenti in pelle nera, casco nero, i colori della squadra sulle maniche. Sarebbe stato sconveniente da parte mia dire alle compagne di scuola quanti uomini incredibilmente belli c’erano a quel funerale. Lo feci comunque.
Salii in macchina con i Templeton. Fino al cimitero Mr Templeton litigò con Johnny sul casco di Michael. Johnny lo teneva sulle gambe, deciso a metterlo nella fossa insieme al fratello. Mr Templeton ribatté, ragionevolmente, che i caschi erano difficili da reperire e molto cari. Bisognava trovare qualcuno che li facesse arrivare dall’Inghilterra o dall’America e pagarci sopra anche una tassa salata.” Vendilo a qualcuno che fa gare” insistette. Johnny e io ci scambiammo uno sguardo. C’era da aspettarselo, che gli importasse solo dei soldi.
Altri sguardi e sorrisetti tra noi al cimitero, con tutte le tombe, le cripte e gli angeli. Decidemmo di farci seppellire al mare e promettemmo di occuparcene di persona, l’uno per l’altra.
Il Canonico, in trine bianche su una tonaca viola, era alla testa della fossa circondato dalla squadra motociclistica inglese, i caschi appesi alle braccia. Nobili e solenni, come cavalieri. Quando il corpo di Michael venne calato nella fossa il Canonico disse: “L’uomo, nato di donna, vive pochi giorni, ed è sazio d’affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso”. Mentre diceva questo, Odette gettò dentro una rosa rossa, e dopo di lei anche Conchi e Raquel. Con aria di sfida, Millie si fece avanti a grandi passi e buttò nella fossa un mazzo intero.
Il Canonico disse parole incantevoli davanti alla tomba. Disse:” Tu m’insegni la via della vita; ci sono gioie a sazietà in tua presenza; alla tua destra vi sono delizie in eterno”. Johnny sorrise.
Capii che gli sembrava proprio la cosa giusta da dire per Michael. Johnny si guardò intorno per essere sicuro che le rose fossero finite, quindi si avvicinò al bordo della fossa e vi gettò il casco di Michael. Ian Frazier, il più vicino alla bara, lanciò un grido di dolore e d’istinto buttò il suo casco sopra quello di Michael. Dopodiché, toc, toc, toc, come ipnotizzati, tutti i membri della squadra motociclistica britannica gettarono i caschi nella fossa. Non solo la riempirono ma vi ammonticchiarono sopra tante cupole nere come una pila di olive. Padre misericordioso, stava dicendo il Canonico mentre i due becchini buttavano terra sulla montagnola di caschi e la coprivano con corone di fiori. I presenti cantarono God save the King.
Sui volti dei motociclisti c’erano espressioni di sofferenza e di perdita. Se ne andarono tutti in fila, poi si sentirono gli scoppiettii e il ruggito delle motociclette e i tonfi degli zoccoli mentre i carri si allontanavano al galoppo, sbandando pericolosamente, tra gli schiocchi dei frustini e le marsine dei conducenti con le code che svolazzavano al vento.