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 2018  ottobre 28 Domenica calendario

Distinguere per capire

Quando manca l’opposizione, quel vuoto lo riempiono le piazze. Piazze diverse, contrapposte, scomposte, contraddittorie, ma piene. E pacifiche. Ottimo sintomo di democrazia. Anche quando chi manifesta non sa precisamente cosa vuole, o vuole l’esatto opposto di quel che vogliono quelli che manifestano nella strada accanto, o peggio vuole una cosa che domani ne causerebbe un’altra peggiore di quella che oggi non vuole. No Tav, sì Tav. No Tap, sì Tap. No alle ruspe, sì alle ruspe. No ai clandestini, sì ai clandestini che anzi non vanno chiamati clandestini. No ai giudici che arrestano Mimmo Lucano perché è un amico, ma no chi attacca i giudici che inguaiano i nemici. No ai migranti perché sotto casa spacciano droga, ma sì ai migranti perché senza la badante filippina, il culo a mia nonna lo devo pulire io. No alla Raggi, ma no anche a Salvini che verrebbe dopo. No al governo Salvimaio, ma no anche al governo Salvisconi che verrebbe dopo. Grande è la confusione sotto il cielo. Le ideologie sono morte tutte: il fascismo, il comunismo, ora il liberalismo mondialista e sviluppista. E nessuno sa bene cosa arriverà al loro posto. Si dice “populismo”, “sovranismo” e altri gargarismi per demonizzare e contemporaneamente esorcizzare una realtà che non si capisce e non si controlla. Spetterebbe agli intellettuali darci una mano a orientarci: ma chi li ha più visti, incistati come nelle trincee dell’establishment in fuga a difendere il posto e la prebenda. Nessuno più ci illumina la realtà, ci dà gli strumenti per comprenderla e per compiere l’esercizio più difficile, nell’appiattimento di questo eterno presente del web che finge di informarci su tutto in tempo reale e in realtà ci ruba la memoria del passato e la chiave del futuro: l’esercizio di distinguere. La società civile americana, incredula e sgomenta dopo l’avvento di Trump, ha riscoperto il valore della carta stampata, come unico spazio di analisi e di approfondimento, e le vendite dei giornali si sono risollevate dopo anni di picchiata. Potrebbe accadere anche in Italia, se i giornalisti sapessero ciò che la gente chiede all’informazione. E invece sono anche loro intruppati, embedded nei carri armati sempre più sgangherati e sbilenchi dei loro gruppi editoriali, aggrappati alle lobby e ai partiti retrostanti. Non spiegano, non raccontano, non analizzano più nulla: tifano pro e contro, nella speranza che la gente distratta o abituata al peggio non avverta il fetore dell’ipocrisia, del doppiopesismo, dell’incoerenza, della censura e dell’autocensura che si leva dalle pagine dei giornali. Lo spread sale? Colpa del governo Conte, ovvio.
Ma quando restava oltre quota 500, ai tempi di Monti, non ci si faceva caso. E neppure a fine maggio, quando schizzò sopra i 300 punti dopo che Mattarella aveva incaricato Cottarelli al posto di Conte dopo il caso Savona, noto terrorista No euro (ora tutti scoprono, stupefatti, che Savona è Sì euro). Con tutti gli errori che possono imputare alla Raggi, le gettano addosso pure la croce del delitto di Desirée, come se i sindaci avessero poteri di ordine pubblico; invece le Prefetture e le Questure nessuno le chiama mai a rispondere – dell’illegalità endemica a San Lorenzo o dei disordini di piazza San Carlo a Torino – perché la colpa è sempre del sindaco (almeno se è 5Stelle). Se il M5S di governo si schiera col Tap perché bloccarlo costerebbe cifre insostenibili, sbaglia perché è incoerente. Ma se la giunta M5S di Torino si schiera contro il Tav perché quell’opera inutile costerebbe cifre insostenibili, sbaglia perché è coerente. Poi, nella pagina accanto, tutti ad accusare il M5S di “dire no a tutto” e bloccare nientemeno che “150 grandi opere”: come se fossero tutte uguali, balsamiche o inevitabili. I giornali che predicavano l’accoglienza per tutti, inclusi gli irregolari, e scambiavano le espulsioni per fascismo anziché per legalità, ora che Desirée è morta scoprono che molti irregolari africani delinquono e vanno espulsi.
Distinguere è di per sé difficile. Ma diventa impossibile quando si parte da un pregiudizio. Se hai deciso chi ha sempre ragione e chi ha sempre torto, non puoi distinguere. E neppure comprendere chi cerca di farlo. Ieri abbiamo criticato Di Maio per l’assurda polemica con Draghi, che in realtà ce l’aveva con gli urlatori leghisti No euro e tendeva una mano alla parte più ragionevole del governo e dunque anche a lui. Ora ci divertiamo a leggere le reazioni: si va da “persino il Fatto scarica Di Maio”, a “Travaglio tira la volata a Di Battista”, a “i 5Stelle hanno fallito, lo scrive pure il Fatto”. L’idea che Di Maio abbia sbagliato e un giornale libero gliel’abbia fatto notare, come già sui condoni fiscale, edilizio (per Ischia) e ambientale, non sfiora nessuno. Eppure sono nove anni che facciamo così con tutti. Pronti a elogiare anche chi sbaglia di più, se fa cose giuste: per esempio il Pd, quando con Minniti mise un primo freno all’immigrazione incontrollata. Per esempio i 5Stelle per le tante misure sacrosante già varate: il reddito di cittadinanza, la quota 100 sulle pensioni (merito anche della Lega), l’abolizione dei vitalizi, il pur timido decreto Dignità, la pur perfettibile soluzione sull’Ilva, l’anticorruzione li chiedevamo da tempo immemorabile a chi governava prima (e non governa più anche perché non l’ha fatto). Ma chi non sa distinguere e continua a ragionare con la guerra fredda nel cranio, come nel Novecento, tutto il bene di qua e tutto il male di là, pensa che anche noi siamo come lui: che passiamo la vita a salire sui carri e a scenderne, a imbarcare tizio e a scaricarlo, a sposare caio e poi a divorziare. Rassegnatevi: il Fatto non ha mai sposato nessuno. A parte i lettori, che mai come in questo momento ci sono vicini. E ci fanno sentire poligami.