il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2018
Intervista ad Antonio Manzini: «La scrittura mi ha salvato dal fare l’attore. Salvini a Rocco non piace di certo»
Il primo fuma canne tutto il giorno, l’altro neanche le sigarette; il primo prende a schiaffoni ogni fastidio fisico e mentale, l’altro preferisce il silenzio della campagna; il primo sfida il freddo di Aosta con il loden, l’altro si infagotta in un piumino alla prima brezza autunnale. Però la distanza tra Rocco Schiavone e Antonio Manzini si annulla all’improvviso dentro a un bar di Treviso, e grazie all’entusiasmo per un semplice tramezzino: “Qui e a Venezia sono spettacolari”. Il suo vicequestore (non commissario) sin dal primo romanzo della serie, giudica la qualità di un bar a seconda se utilizzano un panno umido o la pellicola per conservarli. “Regola aurea, da lì capisco la serietà del posto”.
Manzini è in tour per presentare Fate il vostro gioco, sempre con protagonista “il personaggio letterario più interessante degli ultimi anni”, parola del collega noir Maurizio De Giovanni, e attualmente record di ascolti su Rai2 grazie anche a un superlativo Marco Giallini.
Domande più frequenti dei lettori.
In serie: come è nato Rocco; se io sono Rocco; se Camilleri è un maestro; fino a quando scriverò; se Rocco troverà l’amore.
Chi legge i suoi libri?
Non solo i miei, in generale, la narrativa è prerogativa delle donne, direi quasi all’ottanta per cento, poi i ragazzi, infine gli uomini trascinati dalle mogli.
Lei non ama molto girare.
Questione di pigrizia: da anni ho lasciato Roma e vivo nella campagna laziale, lontano da rumori, odori molesti, inutile caos; sto lì con mia moglie, i miei cani e pile di libri. Leggo tutto il giorno. E più si invecchia e più certe nevrosi si accentuano.
Poche presentazioni.
Sì, non molte, altri colleghi sono molto più presenti di me; preferisco restare a casa e scrivere, forse sono lentissimo e poi c’è Andrea Camilleri che ha alterato tutti i parametri: la sua capacità di produzione è straordinaria e il mio editore ha quel parametro.
Nel libro scrive: “La sporcizia si attacca alla pelle e non va più via”.
E il maggior colpevole è il mondo del lavoro.
Anche nel suo campo?
Oggi no, dopo anni mi sono quasi del tutto disintossicato e ripulito, la scrittura mi ha salvato, ma non dimentico la mia vita precedente….
Quando era attore.
Ecco, era è la coniugazione giusta.
Nessun desiderio di macchina da presa.
Per carità! Non ci penso proprio, tra me e quella realtà ho piazzato qualche migliaio di pagine scritte, e ringrazio ogni parola, ogni idea, ogni intuizione in grado di distanziarmi.
Cos’ha quel mondo?
È una realtà analfabeta sotto il piano emotivo: gli esseri umani dovrebbero rappresentare la parte erudita della società, al contrario sono trattati come ruspe, dove i rapporti tra soggetti diventato mera facciata.
Apparenza e basta.
Rimasti a livello preadolescenziale.
Ne sono consci?
No.
Nessuno.
È un letamaio.
Ne ha proprio sofferto.
Non da quando scrivo sceneggiature, solo la realtà del set non mi piace. L’ignoranza dei sentimenti mi colpisce sempre.
Un esempio di set.
Perenni leccate di culo a destra e poi a sinistra, di nuovo a destra e così via; nel frattempo, tra uno spostamento e l’altro della lingua, scatta pure la gomitata.
Ha mai assistito a scene in stile Weinstein?
È l’acqua calda, mi stupisce chi si è stupito, e non c’è bisogno di essere testimoni diretti, basta analizzare i ruoli assegnati.
Nel senso?
Quante parti esistono per donne oltre i 45 anni?
Poche.
Mentre vediamo uomini di 55-60 anni protagonisti come avvocati, medici, magari giornalisti, al contrario per le donne la vita si ferma intorno ai 35. Giusto Meryl Streep si salva.
Va sul set di Rocco Schiavone?
Una sola volta, non è necessaria la mia presenza.
Beh, lei è il nucleo.
Dovrei andare a controllare, ma in Italia non esiste il ruolo di showrunner (l’addetto alla verifica), quindi è inutile. Solo Niccolò Ammaniti ci è riuscito.
Autore e regista de “Il miracolo”.
Esatto e quello sforzo l’ha pagato caro: un anno totalmente dedicato alla serie, niente scrittura.
Ammanniti è il suo migliore amico.
Accomunati dagli stessi gusti letterari e cinematografici. Stessa ironia. E sappiamo esattamente rispettare i nostri momenti da orso, quando ci isoliamo. Più lui di me.
L’anno scorso sul Fatto è nata una polemica tra scrittori su quanto, e se sono utili i classici.
È una boiata di dimensioni epocali.
Pro o contro?
I classici non solo vanno letti, ma anche conosciuti, e c’è differenza: il respiro di un romanzo dell’800 oggi non lo trovi più.
Cosa insegnano?
In particolare i movimenti psicologici dei vari personaggi, la differenza tra emozione e sentimento, mentre molti libri attuali offrono una scarsa profondità.
Il primo romanzo che le viene in mente?
Papà Goriot.
Psicologia, dicevamo.
Da anni spesso sono gli stessi autori ad auto-descriversi, ma solo perché non conoscono altro, è un continuo guardarsi allo specchio, e moltiplicare la propria immagine all’infinito, tanto da causare una noia mortale: hanno la gobba a forza di ammirarsi l’ombelico.
Altro che Simenon.
Lui non si discute, fuoriclasse assoluto.
Ancora lei scrive: “Un uomo può cambiare”.
In potenza, però è uno sforzo di volontà e di conservazione.
Più semplice in peggio.
È più facile sentirsi creditore verso qualcuno che debitore, ed è necesario togliere ogni scusa, abdicare alla lacrima facile, altrimenti si diventa come Alberto Sordi, quando gridava: “A me m’ha fregato la guerra”.
Meglio riflettere.
Analizzare, sempre. E questo è uno dei lati maggiormente belli del mio lavoro: per scrivere devi conoscere, confrontarti, prendere la metropolitana e ascoltare, non puoi bluffare.
Nel libro cita una canzone di Bowie: “Possiamo essere eroi anche solo per un giorno”.
Basta solo trovare il momento giusto, quell’attimo in grado di mutare l’impensabile, anche casualmente, non importa l’intenzione mirata. Oggi basta essere umano e diventi eroe.
Pessimista.
No, per niente.
Un auspicio?
Il conflitto verbale, lo trovo necessario. Non la lite. Il conflitto. Vuol dire criticare, dubitare, però è fondamentale motivare, prepararsi, non arrendersi alla prima risposta, affondare e ascoltare.
A Schiavone piace Salvini?
No.
Per niente.
Neanche un po’ e il sentimento è reciproco, in caso contrario Rocco si preoccuperebbe, e parecchio, rifletterebbe su quale errore ha commesso per suscitare simpatia in uno come lui.
Dal suo libro: “Le figure di merda non esistono più”.
È una citazione che ho preso da Ammanniti.
Come mai?
È un continuo ascoltare persone sbandierare ideali o grandi idee, per poi rimangiarsi tutto con una facilità e una tempistica estrema. Ecco, per me queste sono e restano figure di merda, e non mi riferisco solo ad amici o conoscenti, parlo a livello politico e televisivo.
Cambi repentini di casacca.
Trent’anni fa la società avrebbe bollato ed emarginato questi soggetti, oggi diventano persone importanti, e magari la figura di merda la piazzano in bella evidenza nel curriculum.
I suoi miti da ragazzo.
Adriano Panatta e Sandro Mazzola.
Perché Panatta?
Bellissimo, sfrontato, inafferrabile. Un artista. Uno che se ne fregava di certe liturgie: se aveva voglia di giocare, distruggeva chiunque, altrimenti arrivederci alla prossima. E la storia della maglietta rossa ancora mi emoziona (quando è andato a giocare la finale di Davis nel Cile fascista di Pinochet).
Mazzola.
Calciava da dio, si smarcava tutti, dava le palle giuste, indossava il 10, portava i baffi e non obbediva agli sporchi diktat di Herrera: lui certe pastiglie le buttava nel cesso.
C’è un altro numero 10 nella sua vita.
Lo so, Francesco Totti. Quando ha lasciato il calcio ho visto la partita da solo e ho pianto, poi il giorno dopo ho scritto un pezzo sul vostro giornale: dovevo sfogarmi.
I suoi anni Ottanta.
Nel 1982 avevo 18 anni e suonavo la batteria in un complesso: un giorno siamo stati ingaggiati dallo stesso produttore dei Depeche Mode per andare a Londra; poco prima di partire due del gruppo lasciano, e finisce il sogno.
Peccato.
No, va bene così, non ho rimpianti, non vivo di se o di forse. Però è stato divertente.
Schiavone fuma le canne e lo rivendica. Lei ha una debolezza che le piace?
Tutto ciò che faccio è una debolezza.
Nello specifico.
Non riesco a incazzarmi con le persone che amo, e poi mi lancio in grandi propositi e non li rispetto quasi mai.
I suoi romanzi sono più storia che giallo.
Il delitto è un pretesto, mi interessa maggiormente la commedia umana, i perché, i come vivono, i dove vivono, i desideri.
In quest’ultimo capitolo lascia un finale non proprio chiuso.
(Alza le mani come a dire: mi arrendo) Colpa mia. Mentre scrivevo mi sono reso conto del problema e sono andato in crisi, così dopo un lento riflettere ho deciso di raddoppiare.
Subito un altro Schiavone.
Ma è lui a decidere, Rocco è una presenza fissa accanto a me, a volte provo a metterlo da parte, e invece riappare, si materializza tra tastiera e schermo, e assecondo.
Quindi?
A gennaio ne esce un altro.
Per lei i libri sono…
Religione. Appena entro in casa di qualcuno controllo immediatamente gli scaffali, voglio capire quanto e cosa leggono.
È il parametro.
Regola fondamentale passata da mio padre; quando dovevo uscire con una ragazza mi ricordava: “Antò, mi raccomando, se non legge, al massimo una botta e via, non di più”.
Aveva ragione?
Di più: se una non legge, non vale la pena neanche quella botta e via.
(Meglio andare al bar e mangiare un buon tramezzino).