il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2018
Ritratto di Paolo Savona
E poi c’è Paolo Savona. In mezzo ai tanti cartonati del nostro sgangherato luna park politico, finalmente un personaggio vero. Uno che ha costruito l’Europa con l’inchiostro dei numeri, ma anche quello delle polemiche. Economista non del tutto ortodosso e persino antitedesco: “Non esiste una Europa, ma una Germania circondata da pavidi”. Nazionalista fervente e persino filo russo: “Le sanzioni che gli Usa hanno imposto all’Europa di infliggere a Mosca sono ingiuste e nuocciono alla nostra economia”. Collezionista d’alti incarichi – dalla Banca d’Italia al Fondo Interbancario, da Confindustria a Gemina, passando per Impregilo, Unicredit, Bnl – mai disdegnando gli ingaggi, i benefit, gli uffici sontuosi. Di larga fede repubblicana, senza smentire quella massonica. Ministro dell’Industria nel governo Ciampi, anni ’93 e ’94. Esperto di intelligence, con tutto quello che ne consegue, compresa la delicata manutenzione delle connessioni internazionali, coltivate tra i velluti dell’Aspen Institute e altre segrete cose. Pieno di amici, compreso il burattinaio Gian Carlo Elia Valori, espulso dalla P2, ma anche di nemici, talvolta cominciando da se stesso, colpa del cattivo carattere. E di certe intemperanze, anche nella vita privata, ultima la denuncia alla Rinascente che, nel centro di Roma, gli ha costruito due piani proprio davanti alle finestre del suo ufficio, cancellandogli la vista e il buon umore.
Un sardo di Sardegna con massima considerazione di sé e con molte vite alle spalle, visti i suoi 82 anni, il più anziano ministro d’Europa in carica, dicastero degli Affari europei, conquistato arretrando da quello dell’Economia, suo primo incarico fortissimamente voluto da Matteo Salvini, il sovranista, ma sgradito al presidente Sergio Mattarella che quando vuole sa essere loquace. E specialmente a Mario Draghi, l’atermico sacerdote dell’euro, da cui lo divide una ruggine ben coltivata già nei primissimi corridoi della Banca d’Italia per temperamenti e orizzonti incompatibili.
Ai bei tempi coccolato da Guido Carli, il Governatore, e poi da Francesco Cossiga, il Presidente, le due sole maiuscole della sua carriera, iniziata nell’Italia a stelle e strisce del Dopoguerra, tutto da ricostruire, l’industria, le banche, la scuola, le élite destinate a governare la rinascita. E naturalmente a predisporre le transenne al comunismo che minacciava neve sul sole della Repubblica. “Sono un soldato”, disse una volta a consuntivo della sua storia. Ed è vero anche nel dettaglio.
Il dettaglio è il mare di Cagliari, l’acqua dondolante del porto, dove il padre, maestro d’ascia, fabbricava barche da pesca, sotto l’arco capovolto della Sella del Diavolo. Tutto pregevole, ma angusto. E dunque, dopo la laurea con lode, la traversata dell’Atlantico per la specializzazione in Economia monetaria al Mit di Boston, dove insegna Franco Modigliani. Ma prima il servizio militare nel Reggimento Leoni di Liguria con esercitazioni siglate OP, ordine pubblico, nella zona calda, cioè rossa, di Genova. “Il nostro compito – ebbe a raccontare – era liberare la sede della tv pubblica, nell’ipotesi di un attacco eversivo”. Siamo dalle parti di Gladio, cioè in quel doppio fondo della Repubblica, opportunamente segreto fino ai giorni del crollo del Muro di Berlino, a cui era ancorata l’Italia, con tutte le conseguenze del caso, i misteri, le affiliazioni. I segreti che selezionano i loro titolari e li conducono, spalla a spalla, lungo una strada comune, anche molto al di là delle apparenze.
La strada di Savona, dopo la prima cattedra universitaria, è l’Ufficio studi della Banca d’Italia, anno 1963 – “sono arrivato primo al concorso, tra duemila candidati” – dentro la grande ombra di Guido Carli. Molte analisi, molti libri, la messa a punto del primo “modello econometrico” della economia italiana, che trasforma le ipotesi degli andamenti statistici in numeri e i numeri in interventi di programmazione. Segue Carli in Confindustria, dove diventa direttore generale. Partecipa alla fondazione della Luiss. A fine Anni Settanta è convinto gli spetti il trono da Governatore, ma perde la corsa con Carlo Azeglio Ciampi, una delusione che negli anni crescerà come una ferita, come un rancore.
Probabile gli abbia nuociuto il legame troppo stretto con Francesco Cossiga, sardo di opposta latitudine, sassarese. Eppure complementare: il suo secondo mentore, all’epoca già ministro dell’Interno con la kappa, poi penitente nel dopo Moro, al punto da somatizzarne in solitudine il dolore che non lo avrebbe abbandonato anche negli anni della risalita, ostinata fino al punto più alto della Repubblica, il Quirinale, dove esercitò il suo dominio prima in silenzio, poi con l’eccesso di parole, senza mai più trovare pace. Savona faceva parte – con Giuliano Amato, Luigi Zanda e pochi altri – della sua cerchia più ristretta. Consigliere per l’economia, prima di tutto, in qualità di plenipotenziario del Credito Industriale Sardo. Ma anche membro, con Franco Bernabè e il generale Carlo Jean, di un comitato per la riforma dei Servizi di sicurezza, il ricorrente dettaglio della sua storia. Arruolato da Cossiga in quel “corpo speciale delle élite” che agisce trasversale ai partiti, alle istituzioni, seleziona incarichi, li incassa, ma sempre nell’interesse della Nazione. Che talvolta non esclude il proprio. Come negli anni fastosi in cui Savona asseconda le avventure economiche di Cesare Romiti, di suo figlio Piergiorgio, in Impregilo, il colosso delle costruzioni, e finirà indagato per i bilanci che non tornano, cavandosela con la prescrizione del reato di aggiotaggio. Ma intanto vivendo alla grande, ricchi emolumenti, estati in villa a Porto Cervo, proprio lui che per formazione e understatement, le passava in famiglia – una moglie, un figlio designer, una figlia archeologa – nelle barraccas, le case di legno, canne e fascine di fiume, costruite davanti al mare di Sinis, golfo di Oristano.
Gli piace definirsi un “Ulisse legato all’albero della nave”, dunque curioso di ogni nuova traversata. Ma in pochi si aspettavano che proprio lui, incarnazione dei poteri forti fino all’ultimo bottone delle sue giacche troppo chiare, avrebbe compiuto l’azzardo di salpare a bordo con chi ha dichiarato guerra a quei poteri. La nave dei barbari, anzi dei pirati, che d’abitudine neanche nomina, chiamandoli “queste nuove forze popolari”. Attribuendosi il compito di “incanalarle verso la cautela, la prudenza la serietà”. Offrendo in pegno (persino) il suo ravvedimento operoso dal fondo speculativo Euklid, basato a Londra, dove deteneva 50 mila azioni, oltre alle funzioni di vertice. E dichiarando di possedere 1,3 milioni di euro in un conto in Svizzera, i maledetti euro di cui l’Italia potrebbe sbarazzarsi secondo il suo famoso “piano B”, ma pur sempre buoni per vivere nell’attuale piano A. Tutto legale, ma sommamente inopportuno per un ministro euroscettico. Specie se a scoprirlo è il Corriere della Sera a cui però ha negato ogni commento.
Nella sua autobiografia – Come un incubo, come un sogno – dice che il piano B per uscire dall’euro è solo un’arma pronta per il negoziato, migliorare il cappio di Maastricht, non per fare fuoco. Ci mancherebbe. E a riprova delle sue quiete intenzioni aggiunge di sentirsi “il nonno di questo governo”. Bruxelles per il momento gli crede, ma non distoglie gli occhi, sapendolo assai più imprevedibile dei suoi nipoti.