Il Messaggero, 28 ottobre 2018
Lino Banfi e sua figlia Rosanna: «C’è ancora gelosia»
Ogni mattina alle 10.30 esatte a casa di Lino Banfi arriva una telefonata. Non c’è bisogno neanche di uno squillo particolare per essere sicuri che sia lei. Questo succede da diversi anni. «Per me è una certezza quotidiana. E se c’è un lieve ritardo, la prendo in giro. Ciao Rosanna. Sono le dieci e trentuno. Mi stavo preoccupando». È un padre di 82 anni che sta parlando alla figlia 55enne. È curioso, ma quello che dovrebbe suonare come l’inizio di un racconto normale di vita familiare ci sembra inventato lì per lì. Tanto siamo abituati al caos maldestro delle nostre esistenze. Ora Lino Banfi è seduto vicino a sua figlia Rosanna. La loro somiglianza non passa attraverso i lineamenti ma emerge da una comune aria un po’ timida, quasi indifesa. Anche se si sono raramente sottratti ai ritratti di famiglia, è come se l’obiettivo avesse lasciato fuori fuoco una certa malinconia, una gentilezza antica. Eppure tutti ricordano la reazione che Lino Banfi ebbe nove anni fa, quando sua figlia si ammalò di tumore al seno (ora guarito): «Non poteva accadermi una cosa peggiore di quella. Mi sentii morire».
I SELFIE
Nei locali chiari dell’Orecchietteria, il ristorante che la famiglia Banfi ha aperto un anno fa a Roma, nel quartiere Prati, ci sono diverse immagini dell’attore pugliese da giovane. Una donna sta festeggiando i suoi 41 anni con le amiche. Scatta il selfie con nonno Libero: «Papà ha due famiglie, quella vera e quella del Medico in famiglia. Tutti lo conoscono soprattutto per quel ruolo» commenta Rosanna. «Non parliamo di nonno Libero. Il pubblico si aspettava un’ultima serie, e invece» dice Lino Banfi, mentre si alza per farsi fotografare con le tre sconosciute. «Una volta per fare una foto con un ragazzino di sedici anni ho pure perso un treno» confessa l’attore, che oggi sarà ospite di Mara Venier a Domenica In. «Quando discuto con colleghi anche più giovani di me che si mostrano scocciati dagli ammiratori, io dico sempre: non lamentatevi, il giorno in cui non ci riconoscerà più nessuno, allora sì che ci sarà ragione di preoccuparsi».
LA MOGLIE LUCIA
Dicevamo della malinconia. Classicamente, va a braccetto con il comico. Chaplin, Buster Keaton, Totò, Eduardo, erano tutti tipi serissimi nella vita. «Qui però la questione non è di essere seri. Papà è un inguaribile pessimista» dice Rosanna. «È vero, io non vedo il bicchiere né mezzo pieno né mezzo vuoto. Io lo vedo proprio frantumato in mille pezzi per terra». E perché mai? «Le sofferenze della vita! Ci sono stati dei periodi in cui non c’erano abbastanza soldi e dovevo ricorrere agli strozzini che alla fine piombavano in casa e si prendevano tutto: gli oggetti d’oro, le lenzuola ricamate, il corredo. Per fortuna mia moglie Lucia quelle immagini le ha cancellate, per via della sua malattia neurologica che la distacca progressivamente dalla realtà, e di cui io parlo sempre con pudore, per proteggerla. Invece io quelle cattiverie me le ricordo bene».
Però, siccome Lino Banfi ha una memoria di ferro («Che invidia, io invece non mi ricordo niente» commenta la figlia), nella mente conserva non solo «le scene di cattiveria umana», ma anche gli snodi fortunati della vita. Uno di questi momenti di svolta porta il nome e il volto di Dino De Laurentiis. «Grazie al fatto che sua moglie Silvana Mangano, nella sua irrequietezza, quella sera era uscita senza dirgli niente, De Laurentiis restò a casa a guardare la tv. Era il 1969. Io allora facevo le mie cose in lingua pugliese, storpiavo il latino, e lui fu incuriosito dal mio personaggio. Mi fece chiamare. E mi chiese: Quanto guadagni, Banfi?. Io non sapevo cosa rispondere: Cavaliere, che le devo dire? Faccio qualche posa, qualche serata, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono amici. De Laurentiis parlò di un vivaio di attori da far crescere. Accanto a lui c’era suo fratello Alfredo, che era un uomo molto pratico: Dino, a questo qui bisogna dargli uno stipendio buono, così lavora solo per noi. Va bene un milione di lire al mese?. Non ci potevo credere: Cavaliere, dove devo firmare?».
Dal milione del signor Bonaventura (il celebre personaggio del Corriere dei Piccoli) il ragazzo ne ha fatta di strada ma, come recita la canzone di Celentano, non si scorda la sua prima casa. Casa, nel suo caso, significa famiglia. Lino Banfi incontra Lucia quando, lui 15 anni, lei 13, vivono ancora a Canosa di Puglia. Si sposano due volte: nel 1962 e, per festeggiare le nozze d’oro, nel 2012.
IL LITIGIO
Con Rosanna, che è la sua prima figlia (il maschio, Walter, lavora anche lui nel ristorante), si mostra subito amorevole ma possessivo. «Avevo sedici anni quando litigammo furiosamente a tavola. Non voleva che uscissi con un ragazzo. Io me ne andai sbattendo la porta. Lui, per reazione, mi inseguì in vestaglia e pantofole per piazza Bologna, mentre mia madre ci guardava dalla finestra vergognandosi come una ladra». La gelosia non accenna a finire, anche oggi che Rosanna ha un marito e due figli, tutti impegnati nel ristorante. «Quando vengo qui e mi accorgo che un cliente sta guardando il seno di Rosanna, mi innervosisco. Scenate però non ne faccio più».
IL PRIMO FILM
Con un padre così radicato nei valori tradizionali del Sud, ci si sarebbe aspettato che dicesse no al suo desiderio di fare l’attrice: «Temevo il suo giudizio. Non sapevo come dirglielo». Per dimostrarle che, invece, l’aveva presa bene, il padre la condusse alla Lancio. Erano gli Anni Ottanta e, nonostante i tempi fossero molto cambiati, lui la immaginava modella di fotoromanzi. «Io avevo iniziato così, quando ero una persona presentabile con tutti i capelli. Ho pensato: Rosanna è bella, ha gli occhi chiari. La prenderanno di sicuro». «Invece non mi presero. E fu una fortuna. Dovette rassegnarsi e comprendere che volevo fare veramente l’attrice. Avevo 23 anni quando recitai per la prima volta accanto a lui, in Grandi Magazzini (film del 1986 di Castellano e Pipolo)» ricorda Rosanna Banfi.
IL RICORDO DI MORO
«Con lui mi sono sempre confrontata, anche quando cercavo di capire i fatti che accadevano in Italia. Mi ricordo per esempio il rapimento di Aldo Moro. Nel 1978 io avevo quindici anni. Quel giorno avevo fatto sega a scuola (andavo dalle suore), e quando vidi tutto quel caos, le sirene, la polizia, per prima cosa cercai di parlare con mio padre». «Il 16 marzo del 1978 io stavo lavorando con la Fenech a Ronciglione. Quando si diffuse la notizia, fermammo la lavorazione. Ricordo che dopo raccontai a mia figlia come avevo conosciuto Aldo Moro. Eravamo a Bari. Era il 1972 e Moro era presidente del Consiglio. Mi fece chiamare in prefettura attraverso un comune amico. Mi chiese di fargli ascoltare la battuta che nello spettacolo facevo su di lui. Ero imbarazzato, mi vergognavo, ma non avevo altra scelta: In Russia dopo la morte di Stalin c’è stata la destalinizzazione, qui in Italia Moro è ancora vivo ma pare che ci sia già stata la demoralizzazione. Lui scoppiò a ridere. La cosa per me era del tutto nuova. In tv, Moro non rideva mai. Notai che gli mancava un dente. Quell’immagine di quest’uomo di Stato a cui manca un dente mi tornò in mente in quel momento tragico e mi venne da piangere».