Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  ottobre 28 Domenica calendario

Le emissioni cinesi riaprono il buco dell’ozono

C’era una volta il protocollo di Montreal. Siglato nel 1987, è stato chiamato “il trattato più efficace del mondo”. In pochi anni ha messo al bando i gas responsabili del buco dell’ozono, che dalla sua massima estensione di 27 milioni di chilometri quadri nel 2006 è sceso oggi a 23. Ma ha avuto anche picchi momentanei da brivido, come i 28 milioni del 2015. E quest’anno in effetti qualcosa di strano ha cominciato a emergere. A maggio uno studio suNature faceva notare un misterioso aumento di Cfc-11 nell’atmosfera. Uno dei gas banditi da Montreal, membro della famigerata famiglia dei clorofluorocarburi, continuava a essere presente nell’aria come se nulla fosse. Oggi è un suo parente stretto (il Cfc-10) a rispuntare nelle misurazioni senza un perché. Un gruppo dell’università di Bristol è riuscito a individuare l’origine di un’emissione di Cfc-10 da 40mila tonnellate all’anno osservata tra 2009 e 2016. Piazzando uno strumento per l’analisi dell’aria su un’isola a sud della Corea del Sud con venti prevalenti da nord-ovest, ci è voluto poco a trovare la sorgente: la Cina, in particolare Shanghai e la regione più a nord, lo Shandong. Le osservazioni sono pubblicate su Geophysical Research Letters. Le previsioni di “rammendare” il buco dell’ozono tra 2060 e 2080 devono a questo punto slittare di un paio di decenni: i clorofluorocarburi sono gas dalla vita lunga. E gli ammiratori del protocollo di Montreal saranno costretti a una riflessione, di fronte al secondo strappo in pochi mesi.
Il Cfc-10 o tetracloruro di carbonio è bandito nelle applicazioni spray, destinate a finire in atmosfera, dal 2010. Ma la sua concentrazione anziché diminuire è andata leggermente aumentando, soprattutto attorno a Shanghai e a partire dal 2012. «Non sappiamo quali industrie e quali processi siano responsabili di queste emissioni» spiega Matt Rigby, uno degli autori, chimico dell’università di Bristol. «Non siamo in grado di dire se il rilascio di Cfc-10 sia intenzionale o accidentale». Prima dell’allarme ozono, il tetracloruro di carbonio era usato come liquido refrigerante, negli estintori o come reagente in alcuni processi chimici.
Più difficile è forse concedere il beneficio del dubbio ai “contrabbandieri” di Cfc-11. Il triclorofluorometano, usato nella produzione di isolanti per frigoriferi o edifici, non è solo un gas che aggredisce l’ozono. Il suo “potenziale di riscaldamento globale” è 4.750 volte superiore all’anidride carbonica. Dopo l’allarme di maggio di Nature, che misurava un eccesso di produzione di 13mila tonnellate all’anno, ma senza riuscire a determinare la fonte, a mettersi in moto è stata la Environmental Investigation Agency. La Eia è una ong che ha sede a Londra e detiene lo status di osservatrice degli accordi di Montreal.
Fingendosi acquirenti di schiuma di poliuretano, l’isolante nella cui produzione si usa Cfc-11, gli "agenti segreti” dell’Eia hanno contattato 21 aziende in 10 province cinesi. In 18 hanno ammesso di usare regolarmente le sostanze proibite. L’ong ha raccontato la sconfortante realtà nel rapporto di luglioBlowing it.
Gli industriali hanno ammesso candidamente di usare i Cfc-11 perché più economici e di migliore qualità. L’alternativa sarebbe rivolgersi ai giganti della chimica occidentali, che avrebbero costretto i cinesi ad acquistare anche il resto della filiera di ingredienti e reagenti, imponendo un prezzo alla fine troppo alto. “La scala di questo crimine ambientale – conclude il rapporto – è talmente grande da non poter essere considerata una serie di incidenti isolati”. E se la media del buco di questa primavera australe (la stagione più critica) è di 23 milioni di chilometri quadri, l’ultima rilevazione di mercoledì scorso arrivava già a 25.