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 2018  ottobre 28 Domenica calendario

«La vita è bella, la Shoah no, così convinsi Benigni a far morire il protagonista»

“La vita è bella”, il film sull’Olocausto che portò Roberto Benigni all’Oscar, doveva finire in maniera diversa. Un finale allegro, gioioso, forse non profondo come poi tutta la storia professionale di Benigni sarebbe stata. Un finale in cui tutti sopravvivono che per i veri sopravvissuti avrebbe falsato in maniera intollerabile il senso della Shoah. Benigni alla fine scelse di chiudere il film con la morte del personaggio di Guido Orefice, il protagonista che lui stesso impersonava, salvando invece la vita al figlio, il piccolo Giosuè. Noto era il dilemma, assieme alla discussione su questo finale. Come note erano le scenate che il produttore Vittorio Cecchi Gori fece al regista implorandolo disperatamente di mantenere un happy ending del film.

Ora, vent’anni dopo il 1998, anno dell’uscita nelle sale americane, il consulente storico che affiancò Benigni conferma un particolare decisivo, che l’ufficio stampa dell’artista preferisce non commentare. Marcello Pezzetti ha ricordato al giornale israeliano Haaretz che fu lui a suggerire il finale tragico con la morte di Guido Orefice. Inizialmente Guido/Roberto doveva sopravvivere, assieme al figlio e assieme alla moglie non ebrea.
Pezzetti ragionò con Benigni del fatto che un finale tutto positivo non avrebbe rispettato i sopravvissuti della Shoah, gli avrebbe provocato grandi contestazioni. E poi lui stesso, Pezzetti, minacciò di abbandonare il ruolo di consulente del film che il regista gli aveva assegnato.
Pezzetti, 65 anni, autore del Libro della Shoah italiana, consulente del Centro contemporaneo di documentazione ebraica di Milano, oggi direttore del museo della Shoah a Roma, ricorda a Repubblica che per settimane visse in simbiosi con Benigni.
«Parlammo per ore e ore, mi fece un milione di domande. Poi alla fine mi disse "adesso basta, ci lasciamo, adesso faccio io", e terminò la scrittura del film».
Lo storico aveva già spiegato ad Haaretz che «dopo questa immersione totale nella storia dell’Olocausto, Benigni comunque mi presentò un finale del film in cui nessuno moriva nel campo di concentramento. Io gli dissi che dopo anni di studi non avevo mai trovato una storia di Olocausto con un happy ending».
Pezzetti conferma a Repubblica che fece altre obiezioni, per esempio facendo notare che mancavano molti aspetti della vita drammatica dei deportati nei campi. Lo storico convinse l’autore a mostrare la selezione e la separazione che veniva fatta all’arrivo nei campi fra uomini, donne e anziani. «Benigni non rappresentò i campi di concentramento realisticamente», dice oggi, «ma la sua era una interpretazione favolistica della Shoah, che realizzò con un profondo rispetto, un’opera che ha aiutato a far conoscere molto meglio l’Olocausto agli italiani».
Al momento di decidere il finale la scelta venne condivisa da Benigni perfino con le famiglie dei suoi collaboratori e con gli amici, che furono coinvolti per settimane nel dibattito. La maggioranza era per la salvezza. Guido/Roberto sarebbe dovuto rispuntare all’ultimo fotogramma dalla torretta del carrarmato americano. «Quando s’è mai visto un film di successo dove il protagonista alla fine muore?», diceva Cecchi Gori. «E invece nel Re Leone il padre muore!», ribatteva il figlio di 11 anni del compositore Nicola Piovani.
«Alla fine però io mi trovai costretto a suggerirgli di decidere comunque, di scegliere fra lui e il figlio, ma di decidere», ricorda Pezzetti. «Roberto fece morire il suo personaggio, Guido, lasciando vincere al figlio il “concorso” con il premio finale del carro armato». Fu il successo di La vita è bella, una favola fantastica che ha raccontato una tragedia orrenda.