La Stampa, 28 ottobre 2018
1915-18: ebrei, valdesi e massoni in trincea
Nel 1915 l’ebreo torinese Ernesto Ovazza aveva 50 anni. Quando scoppiò la Prima guerra mondiale si arruolò volontario insieme con i suoi tre figli (il più piccolo appena ventenne), in uno slancio patriottico condiviso da migliaia di suoi correligionari e testimoniato dal suo Diario, trasudante fierezza e orgoglio per la vittoria italiana, tre anni dopo, nel 1918: «… si è appena chiuso con una gigantesca guerra un grandioso ciclo storico, e da questa lotta immane, da questa fucina di destini nazionali, l’Italia è uscita più grande». Secondo gli ultimi calcoli, furono almeno 5 mila gli ebrei che scelsero allora di combattere in trincea, con un tasso di partecipazione volontaria quasi doppio rispetto a quello degli altri italiani. Una forte partecipazione si registrò tra i valdesi, altra minoranza religiosa legata da un vincolo di indissolubile gratitudine allo Stato liberale che, già con lo Statuto Albertino, aveva mandato in frantumi, assieme ai ghetti, molte di quelle forme di esclusione scaturite dall’egemonia cattolica nel nostro Paese.
L’esigenza di sottolineare il ruolo delle minoranze religiose è in linea con il taglio storiografico che ha complessivamente ispirato le celebrazioni per il centenario della Grande guerra: per una volta, gli Stati nazionali e gli immensi apparati politico-militari che allora si dilaniarono nelle trincee hanno lasciato la scena alle biografie individuali, alle lettere, ai diari, alle scelte personali, alle sofferenze di milioni di uomini e donne, tutti coinvolti nel turbine di una guerra che drammaticamente ci introdusse nella modernità del Novecento. In questa storia dal basso c’è spazio così per esperienze intense come quella degli Ovazza e anche per figure di grande spessore come quella del moderatore della Tavola valdese, il pastore torinese Ernesto Giampiccoli, il cui primogenito morì combattendo sul Carso.
Più in generale, l’incisività dei ruoli assunti da ebrei e valdesi rinvia anche alle difficoltà in cui, in Italia, si ritrovarono i cattolici, con il Vaticano assediato dalle varie Chiese nazionali, ognuna schierata dietro il proprio esercito, tutte disponibili a sostenere le «sacrosante» rivendicazioni del proprio Stato. Oggi, a cento anni di distanza, è tutto chiaro: per la Chiesa fu quello un tornante decisivo verso una concezione universalistica della propria missione, finalmente svincolata dagli appetiti egoistici dei singoli Stati nazionali. Si trattò di una crisi salutare, dunque, ma fu pur sempre una crisi che ne mise in discussione il prestigio anche in ambienti che sembravano graniticamente legati ai suoi insegnamenti. Fu così in particolare in una Torino che aveva già da tempo lasciato affiorare molte delle caratteristiche «eretiche» che ne avrebbero segnato la storia novecentesca. Con ebrei e valdesi, altre minoranze colsero nella guerra l’occasione per diventare vivaci protagoniste della vita pubblica cittadina. Da altri contesti culturali e ideologici rimbalzano storie di personalità affascinanti e complesse, di massoni come Giovanni Lerda e Donato Bachi, entrambi socialisti interventisti tra i più attivi, di donne come Emilia Mariani, maestra, mazziniana di formazione e poi militante socialista emancipazionista, strenua animatrice del comitato «pro Voto». Tutte esperienze umane e culturali diverse che ebbero in comune un’altra scelta «eretica», quella della cremazione, in un associazionismo che fu allora uno degli ambiti privilegiati di selezione per una classe dirigente che accompagnava Torino nel definire la propria identità intorno ai due pilastri della laicità e della modernità.
Non fu una storia a lieto fine. Il fascismo infranse molti di quegli slanci, soffocandoli sotto la cappa della dittatura. La massoneria fu sciolta, i partiti politici cancellati, le minoranze religiose messe in difficoltà dal Concordato del 1929. E per gli ebrei ci fu l’onta delle leggi razziali del 1938. Fino ad allora, lo abbiamo visto, si erano sentiti italiani e basta, indipendentemente dall’appartenenza religiosa. La loro esclusione dalla cittadinanza fu così una ferita inferta a un’idea inclusiva di patria come casa comune, colpendo – per di più – proprio un gruppo di cittadini che nella propria italianità aveva creduto con tutta la forza di chi è convinto che l’identità nazionale non sia una realtà biologica o naturale, ma un progetto civile da realizzare con grande volontà e determinazione. Quanto agli Ovazza, Ettore, il primogenito di Ernesto, che pure al fascismo aveva aderito con l’entusiasmo risorgimentale ereditato dal padre, fu assassinato dai nazisti, insieme con la sua famiglia, nel 1943.