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 2018  ottobre 28 Domenica calendario

Intervista ad Alessandro Baricco

Wikipedia, Facebook, Skype, YouTube, Spotify, Netflix, Twitter, YouPorn, Airbnb, iPhone, Instagram, Uber, WhatsApp, Tinder, Tripadvisor, Pinterest. Nel nuovo saggio sulla rivoluzione digitale, The Game (Einaudi Stile libero), Alessandro Baricco stila una «lista di cose che vent’anni fa non esistevano e adesso sì». Un elenco che mostra quanto ormai quella rivoluzione sia «andata ad annidarsi nella normalità». Non più territorio di un manipolo di barbari, com’erano considerati i suoi attori ancora una decina d’anni fa, quando lo stesso Baricco pubblicò l’omonimo libro. Ma una nuova civiltà, già sotto i nostri polpastrelli: non priva di opportunità, eppure condizionata da errori e paure che l’autore usa (anche) come bussola per orientarsi in un viaggio – nel libro ci sono le mappe – dalle origini dell’insurrezione tecnologica a oggi. Paure, o piuttosto in questo caso «mancanza di coraggio», pure da parte di coloro, i più giovani, che invece avrebbero gli strumenti per indirizzare e governare il mondo «leggero, veloce, immateriale» in cui adesso viviamo. «Queste nuove intelligenze devono uscire fuori», esorta Baricco, ospite a Milano de «la Lettura». 
Che cos’è il «Game» citato nel titolo?
«Il Novecento è finito e una delle prime cose utili da fare è dare un nome alla nuova civiltà in cui ci troviamo. Chiamarla The Game mi è sembrato un modo per ricordarne alcune caratteristiche: il ritmo, la dinamicità, la spettacolarità che vengono dall’imprinting dei videogiochi. È lì la matrice. Lo pensava anche Stewart Brand, tra le menti della controcultura californiana che diede vita all’insurrezione digitale. Lui, il primo a coniare l’espressione personal computer, disse che il videogioco Spacewar!, nato nel 1962, “era la sfera di cristallo in cui potevi leggere dove ci avrebbe portato l’uso dei computer”».
Brand fa parte di un’intelligenza nuova di cui la rivoluzione tecnologica è figlia. Invece siamo soliti vedere questa rivoluzione come una causa e domandarci quali effetti avrà sulla nostra intelligenza. Lei lo chiama «errore di prospettiva». 
«La rivoluzione tecnologica è già l’effetto di una svolta mentale: il rifiuto del Novecento. È l’insieme degli strumenti di cui un certo tipo di umanità si è dotata per fare inversione di rotta rispetto ai disastri del secolo scorso, verso un mondo migliore. Il Game, nato appunto nell’habitat specifico della controcultura californiana, c’entra con gli hippie e i beat, con la protesta contro la guerra del Vietnam e i nerd sepolti negli uffici. Ha una matrice insurrezionale. Ora siamo influenzati da Zuckerberg e Bezos, ma l’inizio fu libertario. Anche in Europa, Tim Berners-Lee, l’inglese che inventò il World Wide Web lavorando al Cern di Ginevra, non lo vendette ma lo regalò al mondo».
L’insurrezione digitale, lei scrive, sapeva da che cosa fuggire ma non aveva un nuovo «progetto di uomo». Un nodo cruciale alla luce delle conseguenze che viviamo oggi.
«C’erano delle linee di fuga, ma non si sapeva come si sarebbe vissuto dopo. Anche se alcuni come Brand e Steve Jobs un’intuizione di quello che stavano combinando ce l’avevano. Si voleva rompere con i sistemi bloccati. C’erano sintomi indipendentemente dal digitale: i supermercati al posto del piccolo negozio o il calcio totale degli olandesi. A questo istinto, la tecnologia ha fornito strumenti efficaci. Usandoli, anche noi uomini ci siamo trasformati». 
Il movimento è stato un fattore decisivo. 
«Ha distrutto i capisaldi del Novecento: la fissità, il confine, gli ambienti blindati. Come animali abbiamo intuito che lì c’era il male, che se mettevamo tutto in movimento avremmo evitato altri guai. Auschwitz, la bomba atomica, tutto era avvenuto in nome di linee di demarcazione. Anche oggi scegliamo sempre il movimento e se qualcosa non si muove, ad esempio un sito che fa fatica a scaricare, pensiamo subito che non funzioni».
I muri però si rialzano. Come lo spiega?
«Bisogna restare lucidi. Noi abbiamo scelto collettivamente il movimento e il campo aperto come garanzia di libertà e pace. Lo abbiamo deciso con gesti enormi: l’Europa, dopo secoli che ci scannavamo; il mercato globale che, lo si può giudicare come si vuole, ma è stato un cambiamento radicale, abbiamo liberalizzato dai calciatori stranieri al sushi che arriva a casa. Una circolazione di idee e persone mai vista prima. Però ci facciamo ipnotizzare perché in Italia il 17% degli elettori è apparentemente sovranista: neanche due su dieci tra quelli che hanno votato alle elezioni, e non è detto che tutti, tra quelli che hanno scelto la Lega, siano sovranisti. Quanto ha preso il Pd? Il 18%».
La Lega però è in crescita nei sondaggi. Ed eventi come la Brexit e l’elezione di Trump vanno nella stessa direzione.
«Stiamo a quello che si è votato. Parlare di crescita nei sondaggi fa parte dello storytelling sovranista. Lucidità non è negare il fenomeno ma portarlo alle proporzioni reali. Queste ci dicono che una parte degli abitanti del Game soffre perché non si sente protetta. Bollarli come imbecilli è la cosa peggiore da fare. “Campo aperto, sì ok, ma non completamente. Ora per un attimo America first”: giocano in difesa, ma se da questo si arriva a pensare che stiamo tornando nel Novecento, vuol dire essere in stato di confusione. E di panico, che provano sia quelli per cui il Game è inospitale, sia gli eredi delle élite novecentesche, perché sentono di avere i minuti contati». 

Domina la paura. Chi resta lucido?
«C’è una grande fascia che non è così spaventata. Una nuova intelligenza, fatta di quelli per i quali il Game è congeniale: vi si muovono bene, hanno strumenti per correggerlo e migliorarlo, e lo possono fare. Purtroppo ereditano l’istinto dell’insurrezione digitale dei primi anni: clandestina, invisibile. Nessuno attaccò i palazzi del potere, la politica, la scuola, la chiesa. Si facevano telefoni, computer, sistemi per comprare i libri da casa». 
Chi fa parte di questa nuova intelligenza?
«Quelli che non stanno ricoprendo ruoli dirigenziali, non stanno facendo politica, non sono presidi delle scuole. Lo scontiamo, lasciamo il palco ad altri. È il momento che la nuova intelligenza esca fuori, in modo anche aggressivo. Anagraficamente è facilitato chi ha tra i 10 e i 35 anni, ma ci sono pure ottantenni con una testa da Game. Sono gli individui con un’intelligenza non lineare, che hanno talento nel collegare pezzi di mondo, non hanno zavorre ideologiche novecentesche. Io stesso ne ho, nel mio sangue circolano cattolicesimo e comunismo, una certa idea di sinistra. Alcuni miei studenti sono più liberi. Quelli come loro devono uscire fuori».
Perché non lo fanno?
«Una parte non accetta la sfida perché è molto, molto dura. Oggi prendersi la responsabilità di gestire il Game, portarlo avanti nel modo migliore contro le paure sia dei novecenteschi sia di quelli che lo soffrono, è un compito faticoso, intellettualmente spinto, presume una grande voglia di fare. Moltissima parte di quella generazione rifiuta questa sfida e si caccia nella nostalgia per le camminate in montagna e nella denuncia degli effetti tremendi di WhatsApp sulle nostre vite. È un gran peccato. Gli altri hanno tutto per prendersi il mondo, salvo una cosa: l’aggressività. Tutti ce l’hanno con gli hater. I giovani invece non sono mai stati così poco aggressivi».
Come spiega questa «mancanza»?
«Il Game non lo insegna. Eravamo più aggressivi noi novecenteschi, cresciuti in un secolo di guerre. Questa generazione ha vissuto una civiltà di pace. Io sono allibito che in Europa una certa élite intellettuale novecentesca sia ancora lì. C’è una sola spiegazione: quelli più giovani non sono abbastanza aggressivi. Forse c’è pure una questione di coraggio. Hanno respirato una civiltà un po’ paurosa, prudente. Siamo arrivati al punto che un gesto di coraggio è votare Movimento 5 Stelle. In parte sì, è una scelta dell’imprevedibile contro la sicurezza di quello che già sai, dunque una piccola componente di coraggio c’è. Ma se il coraggio di una generazione e di una civiltà si riassume nell’avere Giuseppe Conte presidente del Consiglio, allora lì hai la misura della mancanza di aggressività, visionarietà, sicurezza. Queste sono utopie da tinello. Noi novecenteschi avevamo speranze più vertiginose». 
L’azzeramento delle ideologie novecentesche può aver prodotto un cortocircuito? Non si trova più un principio per cui lottare? 
«Il vuoto della caduta delle ideologie, comunque salvifica, si può solo riempire con la luce e la forza di una nuova élite. Sono le élite a tracciare visioni. Di quello abbiamo bisogno».
Come formarle? Lei scrive, ad esempio, che la scuola non è aggiornata al «Game».
«In questo momento la nuova élite si costruisce da sé: il Game è una scuola diffusa, parcellizzata. Anche se la scuola in senso tradizionale resta molto importante: ha una funzione civile, crea uguaglianza, senso dello Stato e delle istituzioni, resistenza morale».

Al «Game» servirebbe in generale un maggiore coinvolgimento degli umanisti?
«Il Game, tecnicista e ingegneristico, è come un organismo al quale mancano le vitamine B, C, D: la sensibilità umanistica ma anche le donne, l’Europa, chi è cresciuto in un Paese non dominante. La rivoluzione digitale, ad esempio, non ha prodotto una sua idea di giustizia sociale, perché non era tanto nel Dna degli americani degli anni Settanta e Ottanta. Invece ne avrebbe bisogno».
È ottimista che ci si possa arrivare?
«Non sono un pessimista sistematico ma non so come andrà a finire. È dura, soprattutto perché è una battaglia che non combattiamo. Non finirà come nel Novecento, perché il Game ha avuto il tempo di produrre anticorpi, ma possiamo sempre inventare di peggio. Uno dei rifugi più facili e colpevoli in questa fase è il confronto con il fascismo: il suo habitat è stato desertificato dal Game e oggi non potrebbe più vivere. Se però si perde tempo a fissare una minaccia-fantasma, non si cerca quella vera. Oggi quando pensiamo ai populismi, ai sovranismi, a una certa destra, non ci chiediamo a quale nuovo tipo di disastro potrebbero portare. È normale che la gente in generale si rifugi nel passato, ma non l’élite. Io posso cercare in internet perché mi fa male la schiena ma non può farlo lo scienziato».
Oggi però anche il principio di autorevolezza è in discussione.
«Il Game ha messo all’angolo le élite perché aveva in mente quelle novecentesche. Ora questo approccio si è generalizzato in un’idea fragile e controproducente: che sia meglio vivere senza. La questione invece non era annientare le élite ma cambiarle, sia al livello degli individui che ne fanno parte sia abbandonando per sempre l’idea di gruppi impuniti, impenetrabili, destinati a riprodursi da sé, ai quali si concedeva di lavorare senza fornire informazioni. In questo il Game ci può portare avanti. Io non rinuncerei mai ai medici ma un certo tipo di medico novecentesco non lo voglio più vedere. Un’élite senza quei difetti del passato, i cittadini la vorrebbero». 
I 5 Stelle hanno provato a esserlo?
«C’era qualcosa di buono nella loro intuizione ma ora mi ricordano il Blackberry. All’inizio una figata ma quando è apparso l’iPhone, rielaborazione ad alto livello di quell’intuizione, con più talento e visionarietà, il Blackberry è fallito. I 5 Stelle, a meno che non abbiano una trasformazione, sono destinati a essere il Blackberry della storia politica».
Arriverà una classe dirigente «iPhone»?
«In questo momento Forza Italia e il Pd cercano di disegnare cabine telefoniche con gettoni più brillanti e un sistema più elastico per telefonare: un fallimento annunciato. Il Blackberry è un viaggio interrotto a metà. Le idee iPhone restano clandestine. Un problema non solo italiano. La Francia non sta meglio». 
Emmanuel Macron non è un giocatore del «Game»?
«Ha fatto due mosse da Game. Ha creato un partito che non c’era. In Italia, è un grande peccato della sinistra non avere mai avuto il coraggio di farlo. La seconda mossa di Macron è la personalizzazione intorno alla sua figura. Oggi, prima ancora del programma, c’è il design: è una regola del Game che viene dal videogioco. Questo è bastato a Macron per vincere. Tuttavia il suo è un esempio di trasformismo, di lupo nel pollaio: un’élite novecentesca che si traveste ma che poi inizia a sbranare. Il presidente è un cittadino del Game, il mondo attorno a lui no. Sarà difficile che Macron possa essere una diga contro l’Europa sovranista».
Come valuta Matteo Renzi?
«Ora non abbiamo la freddezza, ma sarà studiato per ricostruire la nostra storia. È il politico che meglio ha capito cos’è il Game in tempi in cui era difficile farlo. Lui è una tipica élite del Game. Quel suo 40% alle Europee del 2014 va letto anche così: i cittadini vi hanno riconosciuto qualcosa. Poi però è crollato velocemente per due ragioni: la prima è che non ha osato staccarsi dal Pd; la seconda è che lui aveva e ha un’idea di potere novecentesca, e la gente l’ha capito. Non si comprende l’odio per Renzi se non si pensa a quanto lo hanno amato. È l’odio dei traditi. A questo si aggiunge quello dei novecenteschi, ostili al Game: una somma che l’ha abbattuto».