La Lettura, 28 ottobre 2018
Mito e fortuna dell’elemento numero 79, l’oro
Oro. Si sa che chi lo possiede ne è anche posseduto. Centocinquant’anni fa, John Ruskin ebbe a raccontare di un tizio che si imbarcò su un naviglio e prima di partire vendette tutti i suoi possedimenti, li permutò in monete d’oro e le mise in una borsa. La nave incontrò però una tormenta e i passeggeri dovettero cercare di mettersi in salvo. Il tizio si legò la borsa in vita e si gettò in acqua. Naturalmente andò a fondo. Si chiese Ruskin: «Mentre era trascinato negli abissi, quell’uomo possedeva forse il suo oro? O era piuttosto l’oro a possedere lui?». La nota morale del grande intellettuale inglese – ricordata da Peter Bernstein in Oro. Storia di un’ossessione(Longanesi, 2000) – va al cuore del problema: com’è possibile che quel metallo di transizione, numero 79 della tavola periodica degli elementi, banale Au, abbia affascinato senza limiti e spesso portato alla follia l’umanità? Che segreto è nascosto in quel giallo luccicante per cui non ne può fare a meno l’innamorato come l’avido come il ministro del Tesoro? È un mistero, non c’è spiegazione vera.
Certo, è bello, pare abbia affascinato fin dalla preistoria. Sì, è difficile da trovare e da portare alla luce. Va bene, è duttile e malleabile e se ne possono fare oggetti e monili, inattaccabili dagli elementi. È certamente cool, lo sapevano e lo sanno i re e le regine. E quando tutto sembra perdere valore non resta che l’oro. In inglese si chiama gold, non lontano da god, dio. Ma perché considerare l’oro un dio o un diavolo per il quale si arriva a uccidere se in fondo è solo un metallo, come metalli sono, nella stessa tavola di Mendeleev, il rame e lo zinco? Perché in fondo all’arcobaleno c’è una pentola d’oro e non di alluminio? È la storia ad avvicinarci alla risposta: l’oro ti possiede ma è anche libertà.
Nel 1933, quando stava per giurare da presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt ricevette un messaggio dal suo predecessore, Herbert Hoover. Hoover era un ingegnere minerario e di oro se ne intendeva: lo aveva cercato prima in California e poi in Australia. E la sapeva anche lunga in fatto di pasticci con i conti pubblici: durante la sua presidenza crollò Wall Street e iniziò la Grande Depressione. A Roosevelt consegnò un secco manifesto politico: «Abbiamo l’oro perché non possiamo fidarci dei governi». Il suo successore se ne fece poco: dei governi si fidava, soprattutto dei suoi.
La frase di Hoover racconta però quello che è vero probabilmente da sempre: il metallo giallo è qualcosa che dà sicurezza, che a differenza delle banconote ha un valore intrinseco che i governi non possono modificare, che è uguale a Nord e a Sud, a Oriente e Occidente, che dà calore nei momenti di crisi nera. È il bene rifugio: protegge dalle avversità.
Briciole d’oro sono state trovate nelle caverne del paleolitico. Pare però che i primi a dargli un valore siano stati gli egizi, tra il Tremila e il Duemila avanti Cristo: per un pezzo d’oro servivano due pezzi e mezzo di argento. Non era usato come moneta ma era un grande simbolo di potere. La tomba di Tutankhamon ne conteneva una tonnellata e mezzo. Hatshepsut, l’affascinante donna faraone salita al trono attorno al 1470 a.C., inviò esploratori in cerca di oro per tutta l’Africa, si pensa fino all’attuale Zimbabwe, e fece erigere, nel monumento al dio Ammone, colonne con le sommità rivestite d’oro, splendente sotto il sole. Scendendo dal Sinai, Mosè si scatenò sì contro il vitello d’oro che gli ebrei avevano iniziato ad adorare in sua assenza; ma mentre riceveva le Tavole della Legge, Dio gli disse di costruire un tempio con al centro un’arca che «rivestirai d’oro puro». Non era ancora moneta, veniva usato per abbigliarsi, per rendere omaggio e devozione. Ma già era il simbolo, persino nella Bibbia, di qualcosa di unico, non riproducibile e incontrollabile: di grande valore e indipendenza.
Le prime monete di metallo giallo furono coniate probabilmente in Anatolia, nei regni di Frigia e Lidia: da lì i miti di re Mida e Creso, ricco come nessuno. E da allora l’oro ha fatto la storia: dalla Grecia al Medioevo, dalla scoperta delle Americhe guidata da quella che Adam Smith chiamò «la sacra sete dell’oro» ai creek setacciati della California in un’affollata corsa di speranza e avidità. Col crescere della complessità del mondo, inevitabile che si cercasse uno standard per misurare i valori di tutto. Quello standard non poteva che essere l’oro, qualcosa di accettato universalmente, non manipolabile nel suo contenuto. Attorno a esso, alle sue quantità, si cercò di costruire una stabilità, quella del Gold Standard, appunto: iniziato in fasi diverse a seconda dei Paesi (in Inghilterra dopo le guerre napoleoniche) tra fasi alterne durò di fatto fino alla dichiarazione di non convertibilità del dollaro in oro di Richard Nixon nel 1971, tra guerra in Vietnam e irresponsabilità di molti Stati. Oggi nessun Paese è più in regime di Gold Standard: le valute sono Fiat Money, emesse e garantite (si fa per dire, sosterrebbe Hoover) dai governi.
L’oro è però lontano dalla sua fine. Finora, pare ne siano state estratte 190 mila tonnellate: secondo il re degli investitori Warren Buffet, pari a un cubo di una ventina di metri di lato, valore sui 9 mila miliardi di dollari. C’è chi dice un po’ meno, chi invece fino a 15 volte di più. Fatto sta che il mondo continua a vedere nell’oro il metallo della libertà e della stabilità nei tempi bui. Sostituibile forse un giorno dalle criptovalute fuori dal controllo dei governi. Ma chi le metterebbe al dito?