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 2018  ottobre 28 Domenica calendario

Douglas Trumbull: «Aprirò la nuova porta delle stelle»

Buio. Un movimento di camera corre fra le stelle, supera la velocità della luce, attraversa i cromatismi delle galassie, accelera. È una transizione infinita, oltre lo spazio e il tempo. Oltre l’Uomo. Oltre. Passata alla storia come «la porta delle stelle» di 2001: Odissea nello spazio, fu la prima delle tante sequenze create da Douglas Trumbull in grado di imprimersi negli occhi di un’epoca e spalancarli all’inimmaginabile. E fu anche il manifesto di un cinema il cui farsi, anzitutto in senso tecnico, ha sempre testimoniato l’apertura al nuovo. Esplorazione del futuro, questo è il cinema per Trumbull, regista, creatore di effetti speciali da (due) Oscar e collaboratore di alcuni fra i più grandi film di sempre: 2001 ma anche Incontri ravvicinati del terzo tipo o Blade Runner. Ospite al Trieste Science+Fiction Festival, dove gli sarà tributato il premio Urania d’argento alla carriera, con «la Lettura» parla della vita e dell’universo. Concetti, per lui, comunque e sempre legati al cinema.

Nel documentario sulla sua vita, «Trumbull Land», dice di voler restituire «immersività» al cinema. Che cosa intende?
«Penso che il cinema come lo conosciamo stia diventando obsoleto rapidamente. Il suo formato più comune, da 24 fotogrammi per secondo (fps), è con noi dagli anni Venti. Ha fatto il suo tempo e credo oggi non sia più stimolante: c’è troppo abbagliamento, le immagini di qualunque cosa si muova sono sfuocate. Non è un caso ci sia un calo di presenze in sala: stiamo annoiandoci con il cinema. Si pensi al linguaggio che Stanley Kubrick stava sviluppando per 2001: pellicola da 70 millimetri e schermi più grandi, Cinerama, Todd-AO. Oggi questi procedimenti, molto diffusi fra gli anni Cinquanta e i primi Settanta, non esistono più. I giovani dell’industria non ne conoscono nemmeno l’esistenza. L’unico riferimento che hanno è l’Imax, anch’esso fermo ai 24 fps. Possiamo fare meglio».
Per esempio?
«Sto lavorando a un lungometraggio, Lightship, con un sistema che ho battezzato Magi: 120 fotogrammi al secondo, tridimensionale e con definizione a 4k. Vorrei incoraggiare gli esercenti a convertire alcune sale per proiettarlo in modo appropriato. Oggi il grosso degli incassi proviene da sale dotate di Imax o Premium Large Format, con proiettori digitali 4k e schermi che vanno da parete a parete. È l’indice di quanto il pubblico desideri immergersi in un’esperienza, anche a costi extra: le persone cercano lo spettacolo, hanno bisogno di qualcosa che non si possa ottenere tramite tv o smartphone. C’è molto spazio per fare un nuovo tipo di cinema».
È solo una questione tecnologica?
«Non se si dà per scontato che nel cinema la forma è sostanza. La sequenza diventata nota come la “porta delle stelle” di 2001 mi fece capire come si potesse mettere sullo schermo qualcosa di tanto spettacolare da non avere bisogno d’altro, di una trama, di parole, di un controcampo dell’attore. L’idea di Kubrick era dimenticare che ci fosse lo spettatore, cioè che ci fosse qualcuno lì a guardare: voleva che il pubblico fosse dentro il film. Fu un’intuizione così profonda da spingermi, sempre, a tentare di migliorare la natura essenziale del cinema. Ci provai in ogni lavoro, da Blade Runner a Star Trek».
E che cosa pensa della realtà virtuale o delle tecnologie immersive?
«Ribadiscono quanto il pubblico, oggi, voglia essere coinvolto nell’azione. Penso siano tecnologie molto interessanti ma che tendono a diventare un sotterfugio per sostituire lo storytelling, una forma d’arte raffinata. È impossibile che una piccola, stramba camera 3d sostituisca il regista, una buona interpretazione oppure l’arte del cinema: l’illuminazione, la messa in scena, i movimenti della cinepresa, il dramma. Non si può abbandonare tutto questo e sperare di migliorare. Ma si può ricombinarlo: pensi ai videogiochi. Credo la loro forza abbia più a che fare con l’azione e l’interazione. Danno al giocatore qualcosa da fare, gli concedono la capacità di agire su quel che vede».
Per vivere un’altra vita?
«Un videogioco è progettato per offrire un’esperienza di decine di ore e da anni l’industria del gaming fattura più di lungometraggi e musica messi insieme. Sarebbe meglio non sottovalutarlo. Una delle cose di cui sono consapevole è che il mio prossimo film non sarà come un videogioco, ma avrà molti dei suoi attributi in quanto ad azione e visceralità. Perché, per tornare alla corrispondenza fra forma e sostanza, un videogame gira a 63, 72, 92 fps, a 24 sarebbe inguardabile. Il cinema sta trascurando questi aspetti e così facendo non evolve il proprio linguaggio, fatta eccezione per registi come Peter Jackson, James Cameron o Ang Lee. Pochi, come loro, cercano di migliorarlo».

Ha detto che il suo lavoro riflette il desiderio di esplorare l’incognito...
«Mi piace rischiare e fallire non mi importa. C’è una parte molto sperimentale in quello che faccio. Il bello è quando qualcosa che non avrei mai potuto anticipare succede. Terrence Malick lavora allo stesso modo, cerca sempre l’inaspettato. È bello quando i registi la pensano così. Sul set di 2001, Kubrick mi disse: “Facciamo qualcosa che nessuno ha mai provato”. Così si migliora il cinema. E forse non solo».
Allora perché rifiutò di lavorare a «Guerre stellari»?
«Perché, come dissi a George Lucas, sono un filmmaker, non un’agenzia di servizi. Stimandolo molto, lo aiutai comunque a mettere in piedi la troupe, tanto che la Industrial Light & Magic all’inizio fu composta dai collaboratori del mio 2002: la seconda odissea, compreso mio padre».
Pentito?
«No, ero troppo serio e arrogante per apprezzare Star Wars, eccessivamente fantasy per i miei gusti. Avevo lavorato a 2001, nientemeno che con Arthur Clarke e Kubrick. Poi c’è stato Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma ero senza soldi in quel periodo (ride, ndr) e mi piaceva l’idea di collaborare con il bambino prodigio di Lo squalo (Steven Spielberg, ndr). Inoltre credevo sul serio nell’idea di un contatto extraterrestre».
Come sarà il film del futuro?
«Come i feelies raccontati da Aldous Huxley ne Il mondo nuovo: un’esperienza immersiva profonda, capace di accorpare tutti gli aspetti più potenti del cinema migliore, dalle interpretazioni perfette alla scenografia spettacolare, in una realtà percepibile come tale. Un cinema di questo tipo, ammesso si possa ancora chiamarlo così, sarebbe vissuto come una vacanza. Permetterebbe di vivere in un altro mondo, oltre i limiti della realtà fisica e dei rischi personali. Sono molto deluso da come la maggior parte dei film oggi non provi nemmeno a spingersi in questa direzione, si limita a raccontare storie, il che non è un male, sia chiaro, ma inevitabilmente riproduce qualcosa di già visto. Io non mi accontento. Non voglio girare un film sulla realtà virtuale, voglio fare una realtà virtuale migliore. Ci proverò. È il mio lavoro».