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 2018  ottobre 28 Domenica calendario

John Adams torna a dirigere l’Orchestra di Santa Cecilia: «L’opera si basa sui testi di una giornalista e attivista cattolica radicale, Dorothy Day, una per cui il vero impegno cristiano voleva dire rischiare la vita, opporsi all’autorità e alla violenza maschile»

Dalle insidie del conformismo l’hanno salvato Ginsberg, Burroughs e l’amore per Kerouac. Dal silenzio di Cage è emerso con un minimalismo assordante. Con l’eclettismo del suo teatro musicale ha esorcizzato le ultime tentazioni atonali e siderali della musica contemporanea. John Adams, 71 anni, un Pulitzer per On the transmigration of souls, sulla tragedia dell’11 settembre, e un Grammy Award per l’acclamato Nixon in China, torna il 2, 3 e 4 novembre a dirigere dopo due decenni l’Orchestra e il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia con l’oratorio The gospel according to the other Mary (finalista del Pulitzer nel 2014), su libretto del fido collaboratore Peter Sellars. «L’opera si basa sui testi di una giornalista e attivista cattolica radicale, Dorothy Day (1897-1980); una donna molto impegnata ad aiutare i poveri e i bisognosi, una per cui il vero impegno cristiano voleva dire rischiare la vita, opporsi all’autorità e alla violenza maschile», esordisce Adams. «Dorothy dubitava della sua fede, della sua forza e anche del suo amore per Dio, e credo che il dubbio fosse l’espressione più profonda della sua anima. Mi pare molto appropriato rappresentare quest’opera nell’epoca del #MeToo, con un presidente particolarmente offensivo nei suoi comportamenti verso le donne». Le sue opere e le sue composizioni sono fortemente legate alla contemporaneità, come sceglie argomenti e soggetti?
«Ogni opera ha la sua genesi. Nixon in China e The death of Klinghoffer (sull’uccisione di Leon Klinghoffer da parte di un gruppo di terroristi appartenenti al Fronte per la Liberazione della Palestina durante il dirottamento della nave da crociera Achille Lauro, nel 1985) furono entrambi suggeriti dal regista Peter Sellars. Altre sono mie idee, ho un radar sempre in funzione. Nixon e Klinghoffer hanno stimolato la mia immaginazione perché fanno ormai parte della coscienza collettiva. Tutti conoscono Nixon e Mao – personaggi complessi, imperfetti e disonesti, ma anche politici brillanti che sapevano come usare il potere. L’opera è la forma d’arte ideale per dare una” voce poetica” a eventi di importanza storica. Nel 2005 composi Doctor Atomic, una faustiana storia americana con un protagonista potente e carismatico, un genio colto e raffinato; come se il grande fisico Oppenheimer, inventore della prima bomba atomica, avesse fatto un patto con Faust, avesse cioè venduto il suo idealismo e la sua integrità di scienziato pur di riuscire a creare il più grande progetto della storia. Dopo essermi informato meglio, ho capito che il paragone non era calzante. L’atomica è l’archetipo finale dell’abilità umana per comprendere il mondo materiale ma, tragicamente, anche per abusare della scienza a scopi terribili».
Chi erano i suoi eroi musicali da ragazzo?
«I miei genitori erano entrambi musicofili. Mia madre, che aveva una magnifica voce da contralto, cantava jazz e brani di musical, ma non aveva studiato e aveva difficoltà anche a memorizzare le canzoni di chiesa. Mio padre suonava il clarinetto, classico e jazz. Fu il mio primo maestro. Sono cresciuto in una zona rurale del New England, ascoltando di tutto, Benny Goodman, Thelonious Monk, Bach, Beethoven, Sibelius. Da ragazzo suonavo il clarinetto nella banda insieme a mio padre e scrivevo le mie prime cose. Ero all’università quando esplose il rock: adoravo i Beatles, Jimi Hendrix, la Motown, Janis Joplin… Il mio pedigree musicale era molto vario – lo è ancora. Se mi chiedesse chi è stato il più grande compositore americano, risponderei – non Ives, non Copland, non Bernstein – Duke Ellington, perché la sua musica è la più originale, emozionante e universale».
Jazz e beatnik andavano a braccetto: lei è sempre stato suggestionato da quel genere di letteratura.
«La cultura beat esprimeva un rifiuto delle regole e dei comportamenti sociali, ne abbiamo esempi fin dalla Guerra d’indipendenza. Certamente Thoreau, con il suo Walden, ovvero vita nei boschi (1854), ne è stato un precursore, come anche il poeta Walt Whitman. I beatnik storici – Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti e certamente Jack Kerouac – odiavano convenzioni e materialismo, celebravano il sesso, il jazz, l’avanguardia, e furono i primi a riconoscere l’importanza del buddismo. Non avrei mai lasciato Harvard e la East Coast per la California – dove vivo da 45 anni – senza l’ispirazione della beat generation.
Che sopravvive, in altre forme; Bob Dylan, mi pare, ne è un erede. Temo che oggi, nell’era di Facebook e Donald Trump, a noi americani manchi una versione contemporanea della coscienza beat. Siamo troppo occupati a controllare gli iPhone».
In Italia – ma è un problema globale – la musica classica e contemporanea sono considerate d’élite. Secondo lei sono generi in via d’estinzione?
«È impossibile predire il futuro dell’arte. Se qualcuno avesse chiesto a Brahms di farlo, non avrebbe mai potuto profetizzare l’avvento della chitarra elettrica, del microfono, della radio, del sintetizzatore, né quanto radicalmente la musica afroamericana avrebbe trasformato il suono che milioni di persone ascoltano ogni giorno in piccoli dispositivi tascabili».
Com’è la vita del compositore nell’epoca dei social network?
«Da quando ho capito che sono ossessivi, contorti e creano dipendenza, ho deciso di non farne parte. Vero è, almeno in America, che questo è un gran bel periodo per fare il compositore. Quando avevo vent’anni era impensabile – se non impossibile – che un giovane potesse guadagnarsi la vita scrivendo musica. Per sbarcare il lunario dovevi insegnare all’università e comporre di notte. Oggi è diverso, molti – anche mio figlio (il compositore Samuel Carl Adams, 32 anni, ndr) – riescono a vivere del lavoro di autori ed editori. Anche perché fanno musiche più accessibili e meno audaci della indigeribile avanguardia di mezzo secolo fa».
Cosa la spaventa della società in cui viviamo?
«Lo sta chiedendo a un americano che vive nell’era di Donald Trump. La risposta è prevedibile: sono disturbato dalla frattura che si è creata nel paese, dal liberalismo sotto attacco e sempre più debole. Abbiamo avuto un momento di incredibile ottimismo con Obama, ma ora stiamo entrando in un’epoca buia in cui paranoia, pregiudizio, anti-intellettualismo e razzismo sono all’ordine del giorno. Credo che l’aspro antagonismo tra destra e sinistra sia stato alimentato da internet, un evento tecnologico imprevisto e imprevedibile quanto l’avvento dell’elettricità, dell’automobile o della radio. Ma internet è potenzialmente più insidioso, facciamo fatica a comprenderlo e regolarlo; nessuno si aspettava che il suo abuso fosse così devastante. La gente – io stesso, lo confesso – legge ormai solo ciò che è in linea col proprio pensiero. In America la chiamiamo echo chamber (la tendenza di politici e istituzioni a usare i social media per far circolare i propri messaggi, fake news incluse, a discapito degli avversari,
ndr).
Temo che – poiché sottovalutiamo il potere di internet nell’influenzare i comportamenti, e poiché nessun governo o potere economico ha interesse a regolamentare la rete per paura di perdere immensi profitti – qualcosa di terribile possa accadere prima che se ne riconoscano il lato oscuro e il potere sovversivo. Qualcosa come una seconda guerra civile americana, dove nord e sud saranno sostituiti da destra e sinistra. E con un presidente tutt’altro che empatico, privo di curiosità intellettuale e senza una bussola morale, è facile immaginare una nazione in preda alla paralisi o, peggio, alla violenza. E, sfortunatamente, le armi non sono in mano a quelli che la pensano come me».