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 2018  ottobre 28 Domenica calendario

Ennio Morricone si racconta a Giuseppe Tornatore

Considerato che eri un bambino quando hai iniziato, possiamo sostenere che lavori da quasi un secolo. E ancora rifletti sulle origini della tua musica? «Certo. E sai cosa penso dopo tanti anni? È un vero peccato non aver dedicato a mia moglie, a Maria, una parte più ampia del tempo che invece ho trascorso con le orchestre e con i registi. Anche se lei non me l’ha rimproverato mai, e continua a non lamentarsene oggi. Ogni tanto passo davanti a un piccolo mobile sistemato nel salone grande. C’è una sua foto, vedo la bellezza della sua gioventù: forse non me ne sono accorto – mi dico – eppure le ho voluto un bene infinito. In quella fotografia è furbetta, bella, mi ricorda tutte le volte che l’ho vista quando aveva diciotto o vent’anni. Mi è sempre piaciuta moltissimo».
Le hai mai dedicato una composizione?
«Più di una. Può darsi che lei non lo ricordi».
Sempre musica assoluta o le hai dedicato anche un tema d’amore?
«Solo musica assoluta. Un tema d’amore si scrive per un film. E poi, sai, quando eravamo fidanzati, ogni mattina prendevo un mezzo pubblico, andavo a prendere Maria a casa e l’accompagnavo al lavoro. Per non dover perdere tempo con altri mezzi pubblici, me ne andavo al bar di fronte ad aspettarla. Mi sedevo a un tavolino, bevevo qualcosa e, prima che lei finisse il suo orario di lavoro, arrangiavo tre, quattro canzoni per la Rai. Perciò mi sembra di averle dedicato molte melodie».
Il pubblico ti immagina eternamente ispirato.
«Sciocchezze, propaganda. Sulla melodia si lavora. Spesso ho scritto e poi ho cambiato una nota, perché proprio quella nota lì, quella ripetizione, dava una rottura di palle insopportabile e bisognava cambiarla. La melodia si può inventare, certo, non posso escludere che qualcuno abbia un’idea straordinaria, un’idea spontanea, ma lo ripeto: sulla melodia si lavora. Non è magia, ha delle logiche».
Giorni prima che ricevessi l’Oscar alla carriera, a una cerimonia presso l’American Composers Forum di Los Angeles, chi ti ha presentato al pubblico ti ha definito un melodista.
«È come se mi avesse dato del dilettante. Del resto, se fai una melodia e poi qualcun altro deve arrangiarla sei un dilettante. Usi la melodia, qualcosa di facilissimo da ideare, e poi non sai strumentarla. Essere definito in quella maniera mi ha seccato, ma sai come funziona: in certe occasioni sei costretto ad accettare».
Sei superstizioso? Sul lavoro hai riti scaramantici?
«Un po’, prima non lo ero. Lo sono diventato proprio quando ho cominciato a lavorare nel cinema. È un mondo nel quale sembra che tutto porti sfortuna. Quello porta jella… quell’altro pure… tocco ferro… mi gratto… Alla fine ti lasciano delle tracce nel comportamento. Non riesci a sottrarti. Del resto, se uno degli orchestrali si presenta con la maglietta viola, la registrazione non la porti a casa, non c’è niente da fare. (…) Una volta avevo dei pavoni nel giardino di casa, bellissimi quando aprivano la ruota. Sergio Leone li vide e si grattò subito. «Ma sei matto?» urlò. «Portano la jella delle jelle!» Un istante dopo chiamai lo zoo e glieli regalai. Un’altra volta eravamo a tavola in tredici. Qualcuno per quietarmi disse che mio figlio non andava contato perché troppo piccolo, e così diventavamo dodici. Dunque ci mettemmo a tavola, malgrado io non fossi d’accordo. Qualche giorno dopo andiamo in un ristorante, mio figlio prende a sassate un ragazzino e gli sfiora l’occhio, io subito collego il fatto a quella tavolata in tredici. Insomma, non è vero ma ci credo».
Quando mi chiedono com’è cominciato il mio rapporto con il cinema, mi viene in mente la prima volta che ho visto un film, la ricordo benissimo. Cosa mi rispondi se chiedo a te qual è il primo ricordo in assoluto che hai del tuo rapporto con la musica?
«Da ragazzino mi mettevo in ginocchio e poggiavo l’orecchio alla radio, sull’altoparlante del giradischi. Mi torna in mente un pezzo dell’Andrea Chénier di Umberto Giordano. Lo sfondo della Rivoluzione francese, il poeta che avverte un profondo affetto per una ragazza bellissima, ragazza a cui spiega il mondo, le racconta quanto è difficile, ma anche quanto il mondo potrebbe essere bello. Era un pezzo che mi faceva molta impressione, lo ascoltavo di continuo, tanto da aver consumato e rovinato il disco. Credo di averlo ancora, ma ora è impossibile ascoltarlo, allora i giradischi avevano la puntina che col tempo procurava danni al vinile».
Come avvenne il primo incontro con Sergio Leone?
«Sergio venne a casa mia. Abitavo a Monteverde. Mi chiese se volevo fare questo film, accettai. Devo dire che mentre mi parlava avevo un certo imbarazzo a guardarlo, io quel viso l’avevo già conosciuto. E poi aveva un cognome che mi pareva di ricordare, e un gesto del labbro, semplice, non proprio un difetto, lo muoveva in un certo modo. Allora tutto fu chiaro, era lui. Avevamo fatto la terza elementare insieme. Ricordavo per la verità più il cognome che il nome. Lui mi spiegava il film e io a un certo punto lo interruppi: «Ehi, ma tu non sei Leone, che a scuola andava ai Carissimi?». «Sì» fa lui, «sono io!» «Io sono Ennio Morricone, non ti ricordi?» E lui: «Ahhh! È vero!». Insomma, ci siamo trovati e riconosciuti così. A scuola non eravamo amici, lo siamo diventati in quell’istante. (…) La sera andammo a mangiare in un locale dietro a Ponte Sisto, da Checco er Carettiere. Checco era un altro della nostra terza elementare. Insomma, la serata si concluse con una piccola rimpatriata».
Veniamo a Pasolini. Un capitolo di enorme rilevanza nella tua carriera.
«Un giorno fu Enzo Ocone a chiedermi di andare a un appuntamento con Pasolini. Ocone era il direttore di produzione e voleva scrivessi le musiche di Uccellacci uccellini Quell’incontro non fu straordinario. Pasolini aveva preparato una lista di pezzi tra i quali avrei dovuto scegliere, e che in realtà aveva già scelto lui: musiche da mettere nel film. Così gli dissi: “Scusi, io sono un compositore, scrivo musica, non prendo le musiche di altri e le metto sul film. Non posso farlo, devo rifiutare”. Lui mi rispose: “Va bene, allora faccia come vuole lei”. Queste parole le ricordo benissimo, nessun altro regista mi aveva risposto così, concedendomi in un attimo tanta fiducia. Non aveva ancora fatto molti film. Aggiunse: “Faccia solo in modo che io possa sentire un tema di Mozart”, e mi indicò quale. Accettai e misi un tema di Così fan tutte, un’aria suonata da un’ocarina. In seguito, capii perché. Nei suoi film precedenti,
Il Vangelo secondo Matteo e Accattone, aveva fatto mettere Bach e Mozart, i film andarono bene e dunque intervenne la scaramanzia. Per il resto, feci io tutte le musiche, senza ricevere alcun suggerimento».
All’epoca in cui Carlo Azeglio Ciampi era Presidente della Repubblica, ti scrisse una lettera in cui ti parlava dell’inno d’Italia. Poi che successe?
«Mi arrivò a casa quella lettera, e credo che sia arrivata la stessa anche ad altri musicisti. Ciampi voleva sapere cosa pensavo dell’inno di Mameli. Parlai piuttosto male sia del testo, sia della melodia, sia dell’accompagnamento. (…) Il nostro tema è risolto come una marcetta, mi dà fastidio e lo dissi all’incaricato del Quirinale. Così pensai a un esperimento. Riscrissi la melodia dell’inno, lasciando gli accenti metrici ma con valori diversi. L’avrei eseguita nella piazza del Quirinale in un concerto dedicato a Ciampi. Ma lui non si presentò. In quei giorni c’erano state le vittime dello tsunami nel Sudest asiatico, credo ci fosse un lutto ufficiale. In più, gli uffici della presidenza mi avvertirono con molta cortesia che la maniera in cui avevo concepito l’inno non era gradita, e che non avrei potuto eseguirlo al Quirinale. La melodia era perfetta, aveva un’armonizzazione diversa ma interessante, corretta, non troppo sofisticata. Ovviamente, non l’ho eseguito. Un giorno d’estate andai al Quirinale, nel grande cortile si teneva un concerto diretto da Roberto Abbado. Ciampi era presente e si suonò l’inno di Mameli, ma Abbado lo diresse lentamente, come non lo si esegue di solito, la banda non suonava forte e il coro non strillava, cantava sottovoce. Impazzii, mi parve bellissimo».
Eri dispiaciuto per la richiesta di non eseguire la tua versione?
«Abbastanza. Ma se il cerimoniale lo proibisce…»?
 
Nota: Ennio, un maestro. Conversazione scritto a quattro mani da Ennio Morricone e Giuseppe Tornatore esce il 31 ottobre