La Stampa, 27 ottobre 2018
Non è vero che l’Italia è troppo grande per fallire
Molti, si dice anche nelle sfere del governo, pensano di poter piegare la volontà dell’Europa rispetto alla violazione delle regole fiscali europee perché l’Italia è troppo grande per metterla nei guai. E, soprattutto, si pensa che, per lo stesso motivo, nel caso in cui lo spread salisse a livelli insostenibili, l’Europa verrebbe comunque in soccorso, anche finanziariamente. Dopo tutto, la lezione di Lehman Brothers è stata chiara: le grandi banche sono «too big too fail», troppo grandi per lasciarle fallire. Lo stesso varrebbe per una grande nazione come l’Italia: il costo per il mondo sarebbe troppo alto. E’ una pia illusione. La storia ci insegna che, quando si tratta di relazioni tra stati sovrani, altre logiche prevalgono. E’ per questo che scoppiano le guerre.
E’ senza dubbio vero che una crisi dell’Italia manderebbe in crisi non solo l’economia europea ma probabilmente anche quella mondiale. Il debito pubblico italiano è sei volte e mezzo quello che la Grecia aveva nel 2011. Il Pil italiano è dieci volte quello greco. E abbiamo visto quali sono state le conseguenze della crisi greca per il resto dell’Europa. Sarebbe un disastro per tutti se l’Italia cadesse in una crisi profonda.
Ma quali sarebbero le conseguenze di un bail out dell’Italia per la credibilità del sistema dell’euro, delle istituzioni europee e, in ultima analisi, dei paesi che ne fanno parte? L’euro è stato basato sulla volontà di condividere una moneta tra paesi con inflazione e tassi di interesse bassi (chiamiamoli paesi del Nord) e paesi con un’inflazione e tassi di interesse alti (i paesi del Sud). Era imperativo per i primi assicurarsi che la stabilità monetaria a loro tanto cara non venisse messa a repentaglio dal comportamento irresponsabile dei secondi, soprattutto per quanto riguardava i conti pubblici. Un intervento per sostenere i paesi del Sud nel caso si fossero trovati in difficoltà avrebbe distrutto la credibilità dell’euro se avesse comportato stampare moneta comune. E avrebbe scaricato sui contribuenti nordici l’indisciplina dei «sudisti» se avesse comportato il bail out attraverso finanziamenti da parte di altri paesi o dell’Unione Europea. Da qui la proibizione nel trattato di Maastricht di finanziamenti monetari ai governi da parte della Bce e il divieto di bail out di paesi in crisi.
Da allora le cose sono un po’ cambiate, ma non molto. Sono stati sì creati strumenti di intervento a sostegno dei paesi in crisi: lo European Stability Mechanism, un’istituzione con sede in Lussemburgo dotata di centinaia di miliardi di euro, e le Outright Monetary Transactions attraverso cui la Bce può dispiegare la propria potenza di fuoco in modo quasi illimitato. Ma questi strumenti sono basati su un principio fondamentale, quello della condizionalità: il sostegno viene erogato solo se il paese si impegna a fare (e fa) certe cose. Il paese in crisi deve mettere a posto i propri conti, riformare l’economia e così via. In altre parole, arriva la troika e il paese perde parte della propria sovranità, come la perderebbe chiunque avesse bisogno di finanziamenti da parte di altri stati sovrani (piccola parentesi: avverrebbe così anche se i finanziamenti arrivassero da Putin).
In questa situazione, pensare che l’Europa possa ignorare le regole fiscali esistenti e, a maggior ragione, che possa intervenire a sostegno dell’Italia in caso di crisi, senza chiedere nulla in cambio, è del tutto irragionevole. Equivarrebbe a chiedere ai paesi del Nord (e in realtà ormai a tutti gli altri paesi del Sud cui, tranne l’Italia, le regole europee vanno bene) di cedere, a loro volta, parte della propria sovranità. E questo non avverrà mai nonostante le pesanti conseguenze economiche che una crisi in Italia avrebbe per il resto del mondo. Il problema di fondo è quello che spesso causa le guerre (economiche in questo caso): anche se una soluzione conflittuale non conviene a nessuno, cedere alle pressioni dell’altra parte comporta una perdita di credibilità e sovranità che non è sostenibile a livello politico. Occorrerebbe capire che, in queste condizioni, giocare d’azzardo («playing chicken» come si dice in inglese), usare l’arma del ricatto, contando sulla paura che la crisi dell’Italia causi la crisi dell’Europa e forse del mondo, non può portare a nessun risultato a noi favorevole. Si potrebbe dire che anche l’Italia deve difendere la propria sovranità. Vero, ma l’adesione volontaria dell’Italia al club dell’euro (e ricordiamo che all’epoca la stragrande maggioranze degli italiani voleva l’adesione all’euro) ha comportato l’accettazione delle regole europee: non si può far parte di un club e poi violarne le regole. Se queste non piacciono e non si possono cambiare, se c’è stato un ripensamento sull’euro allora non resta che uscire dal club, anche se «non sta nel contratto».