la Repubblica, 27 ottobre 2018
Fellini era Kafka
Credo che Federico Fellini sia stato un vero scrittore: l’unico scrittore tra i registi italiani; uno dei due o tre veri scrittori italiani. Passava la notte a leggere, beatamente: scriveva, scriveva, e scriveva; e sentiva che il suo vero, lontanissimo emulo era Kafka. Le sue sceneggiature, che non vengono ancora gustate o studiate, sono, in realtà, scritture, libri, talvolta sopralibri, ultralibri.
Si meravigliava di se stesso, come di un animale strano e stravagante. Ma non si sentiva sicuro di niente. Al contrario di Rossellini e di Visconti, non c’era niente di cui fosse certo e sicuro. Ma si sentiva, specie negli ultimi anni, estraneo a se stesso: un grandioso straniero, dimenticato, o trascurato, o assalito, o distrutto. Bastava scorgerlo per strada – passava molto spesso –, verso le otto di sera, sotto le finestre di casa mia, dove aveva abitato per molti anni, perché una improvvisa irruzione di altri mondi assalisse me, la strada, gli amici, il mondo, l’universo.
In un bellissimo testo pubblicato con cautela, grazia, gentilezza, e nelle lunghe conversazioni che, per esempio, aveva avuto con me, era facile ascoltarlo. Era un libro che parlava, libero, fluido, spiritoso, sciolto. Era la stessa parola che si agitava.
Non andava volentieri al cinema. La sala lo disgustava profondamente; e invitava i suoi amici in sale sempre più piccole, simili a buchi. Amava tutto ciò che era cinema: dallo Sceicco bianco alla Dolce vita alla Nave va, e chissà dove altrove sarebbe andato.
Pensava con estrema convinzione che i suoi non fossero veri film, ma chissà che cosa. Certo, erano inganni, ma anche il rovescio di un inganno. Diceva di essere un clown: in realtà egli rappresentava un clown. E, per quanto dicesse, sapeva che i suoi erano inganni, mentre nessun altro regista italiano coltivava veri inganni. Non sapeva cosa fossero i suoi film, specie verso la fine della sua vita. Tutto era mistero. Forse aveva rovesciato sulla moglie, Giulietta Masina, il suo aspetto più propriamente critico.
Pensava che gli italiani fossero approssimativi, ma anche precisi, tecnici ed esattissimi.
Amava gli inganni, e detestava gli inganni. Per lui era essenziale la scelta della maschera; e, negli ultimi anni di vita, lavorava a sopramaschere, ultramaschere, al di sopra di qualsiasi condizione letteraria o cinematografica: chissà dove, in un luogo lontano e stravagante. Non era un vero regista, eppure nessuno era più regista di lui. Gli italiani erano approssimativi; ma lui era più approssimativo e facilone di loro. Si chiedeva: «Ma chi l’ha fatto questo film?
Com’è possibile che sia stato io – io, un pigro, un indolente come me, che pensa soltanto a leggere e a sognare, che adora Jung, questo visionario, più di qualsiasi altro filosofo?» Amava gli attori, ma si teneva lontano dalla scelta delle facce e degli attori. Avrebbe dovuto raccontare psicologie — ma le sue non erano mai, mai psicologie. Erano figure.
Forse sognava. Forse delirava. Certo, detestava i personaggi, da quelli dello Sceicco bianco fino a quelli della Nave va.Non sapeva a che mondo appartenesse. Lui si sentiva un burattinaio. Cercava comparse, e tutti, per lui, erano comparse: anche gli amici più cari ed amati. Nulla doveva essere impreciso. Il verde era verde, perché doveva essere verde. Il rosso rosso perché doveva essere rosso. Tutto era preciso, scrupoloso, tutto era, insieme, approssimativo e non approssimativo, appartenente a molteplici mondi che lo trascinavano e da cui si lasciava trascinare. Un film era un rapporto tra rapporti e rapporti: tra contraddizioni e contraddizioni; e scarabocchiava e scarabocchiava per ore sulla carta per inseguire le moltitudini di questi rapporti fantastici. Non assomigliava a nessuno: forse a nessun essere umano. La scelta delle maschere, fin dai tempi dello Sceicco bianco, era importantissima. Ma chi era la maschera? Lui o l’attore?
Tutto era vivo: eppure, al tempo stesso il cinema era un’immensa natura morta come le più belle stampe napoletane o olandesi del Seicento. Tutto era finto, ma non si doveva dire, non poteva sembrare finto. Aveva conservato la sua eredità di pittore – sebbene nessuno fosse più remoto di lui da Caravaggio o Tiepolo. E poi i rapporti col cinema potevano essere atroci: torturarlo, non lasciarlo dormire; soprattutto non lasciarlo sognare. Quello che importava era la luce – e la luce appropriata poteva infondere nelle scene bellezza ed intelligenza. Doveva essere la luce a raccontare il film. E la luce era, per lui, così leggera, che poteva diventare nazione, città, strada, casa, persona, oggetto. Mai personaggio.