È a Parigi di passaggio, condizione che predilige. «Vivo un po’ ovunque, rimpiango di non aver mai abitato in Italia» dice lo scrittore citando l’amore per Carlo Emilio Gadda e per il Vaticano. «Non sono credente ma ogni volta che vado a San Pietro mi commuovo». Bitna è una ragazza della Corea del Sud che si salva dalla miseria esistenziale trasformandosi in una straordinaria narratrice.
«Mi piacciono le storie, se vuole raccontarmene una sarei lieto di ascoltarla per poi magari rubarla».
Una storia vera?
«Non importa, dal momento che la racconta per me diventa vera. Il confine tra realtà e finzione importa poco. Tutte le storie raccolte nel libro vengono da qualcuno che le ha vissute o immaginate: fa lo stesso».
Come quella dei due dragoni rivali che si battono lassù, nel cielo di Seul?
«È una leggenda che s’ispira all’angoscia permanente di una guerra alle porte, una paura che si respira in Corea del Sud.
Credo sia anche la ragione dell’impazienza e del gusto per l’avventura della gioventù di Seul».
Chi è Bitna?
«Una ragazza che deve battersi per sopravvivere. Ho insegnato a lungo in un’università femminile di Seul. Molte studentesse si confidavano con me sui loro problemi materiali e sentimentali. Ho avuto accesso a un mondo per me sconosciuto. Le mie due figlie sono cresciute in condizioni molto più confortevoli di quelle di Bitna e delle altre ragazze sudcoreane».
Cosa c’è di così affascinante nella capitale della Corea del Sud?
«Gli stranieri sono spesso delusi. A prima vista, Seul appare come una città brutta. È stata distrutta durante la guerra. Non c’è nulla di antico.
Tutto è nuovo, in continua trasformazione. È qualcosa che apprezzo. Le città troppo rispettose dell’ordine mi sembrano noiose. Un proverbio sudcoreano dice: “Ci ritroveremo un giorno o l’altro sotto il cielo di Seul”. È un po’ come il vostro “Tutte le strade portano a Roma”. A Seul c’è un incessante viavai. Oggi ha quindici milioni di abitanti, l’anno prossimo saranno venti.
Ci sono quartieri cinesi, vietnamiti, africani, anche europei, i più noiosi. È una società aperta. Non si ascoltano dibattiti su invasioni come capita a Occidente».
Negli ultimi anni ha denunciato la xenofobia strisciante nelle nostre società.
«Tra il 1940 e il 1944 ci siamo nascosti con la mia famiglia in un villaggio dell’entroterra di Nizza, Saint-Martin-Vésubie.
Avevamo un passaporto britannico perché mio padre era nell’esercito britannico in Africa. Abbiamo ricevuto molto aiuto nelle montagne da parte di italiani dei comuni limitrofi dove venivano accolti ebrei o rifugiati perseguitati come noi.
È una solidarietà che c’è ancora oggi al confine franco-italiano, solo che le autorità francesi vogliono mettere in prigione i volontari che aiutano i migranti. Non ho mai dimenticato quegli anni. È un sentimento viscerale. Non posso accettare che si possa dare la caccia a chi cerca un rifugio. Certo, non hosoluzioni pronte all’uso.
Macron ha detto che esprimo “buoni sentimenti”. È un uomo intelligente, che ha fatto buoni studi. Non sono in grado di dare consigli. Penso solo che serva un po’ di cuore nella politica».
In un testo pubblicato dall’Obs cita l’esempio del medico di Lampedusa, Pietro Bartolo.
«In Italia ci sono cattivi esempi ma anche buoni esempi. Il vostro Paese è in prima linea.
Ci sono estremi da una parte e dall’altra. In Francia, è tutto più tiepido. Per un periodo si accoglie, poi improvvisamente sembra che si debba mandare via tutti. Alla fine ho l’impressione che non ci sia una vera conoscenza dell’altro, sono sentimenti basati su un’impressione superficiale.
Probabilmente scriverò di nuovo su questo tema. Ho anche un esempio a casa, mia moglie Jemia, marocchina, è arrivata in Francia sulle navi della Croce Rossa».
Scrivere è un dolore o una gioia?
«Non ho mai sofferto. Adesso che sto invecchiando l’unica cosa che mi angoscia è pensare che potrebbe mancarmi il tempo o la forza per scrivere».
Essere nomade è una condizione necessaria per trovare l’ispirazione?
«In fondo, non ho mai avuto una patria. È una condizione che aiuta ad avere una certa distanza, vedo qualità e difetti della Francia. I luoghi dove abito sono frutto del caso. Sono andato da giovane in Messico per lavoro, poi a Panama per scoprire la natura. Ho passato dodici anni negli Stati Uniti perché insegnavo, e così pure in Cina dove ho lavorato all’università. Scrivo su paesi che non esistono, in base a ricordi, esperienze indirette. I luoghi che invento sono un mosaico di Seul, Bangkok, Città del Messico, Albuquerque, Nizza».
La patria è la lingua, nel suo caso il francese?
«Amo il francese, soprattutto quello scritto, ma sono curioso anche di altre lingue.
Ho imparato un po’ di cinese, di coreano. Mi piace la fase in cui si scoprono nuovi vocaboli, espressioni. Altre volte preferisco ascoltare lingue straniere sconosciute come una musica misteriosa».
La letteratura è “rumore” ha detto una volta. Cosa intende?
«Credo sia il riassunto della vita di molti scrittori. Prima di cominciare ho letto molto.
All’inizio volevo aggiungere qualcosa di mio a tutte queste letture. Poi ho voluto trovare storie, personaggi. Da un certo punto in poi la scrittura è scaturita invece da frasi che hanno bussato alla finestra. È un rumore di sottofondo che tento di catturare».
Essere sempre ricordato come premio Nobel la disturba?
«Non ci faccio caso, direi che non è grave. Alla fine, il mio modo di scrivere è rimasto sempre lo stesso».
Nella motivazione del Nobel veniva citata la sua capacità di raccontare “l’umanità accanto e al di sopra della civiltà dominante”. Una definizione in cui si riconosce?
«Sono le miei origini a guidarmi, non c’è nessuno di più marginale di qualcuno venuto da Mauritius. E per fortuna i margini non sono poca cosa da raccontare. Anzi, guardando bene, il centro è piccolo e piuttosto vuoto, no?».