Corriere della Sera, 27 ottobre 2018
È morto Lello Di Segni, ultimo dei sedici ebrei tornati vivi dai campi di sterminio dopo il rastrellamento di Roma del 16 ottobre 1943
E adesso? Adesso nessuno potrà raccontare più: «Io c’ero». Lello Di Segni, l’ultimo dei sedici ebrei tornati vivi dai campi di sterminio dopo il rastrellamento di Roma del 16 ottobre 1943, se n’è andato. Restano le testimonianze lasciate nei libri, nei documentari tivù, nelle interviste ai giornali di chi ha conosciuto quei rari sopravvissuti. Ma l’ultimo testimone diretto di quella spaventosa retata non c’è più.
Aveva quasi 92 anni ma portava ancora il numero che i nazisti gli avevano marchiato nella carne nel lager di Auschwitz-Birkenau: 158526. «Così dovevo essere chiamato, 158526», raccontò un giorno a Marcello Pezzetti, lo storico che ne Il libro della shoah italiana ha raccolto tante preziose e tragiche testimonianze, «come un cavallo. Su un lato del mio vestiario c’era il mio numero de bestia».
Come altri segnati dall’orrore di quella esperienza, non tornava spesso su quei ricordi. Troppo strazio. La sera prima della retata, spiegò allo storico Umberto Gentiloni, c’erano stati «dei mitragliamenti, delle bombe a mano con esplosioni, in modo che noi ebrei impauriti rimanessimo a casa senza uscire». Poi, la mattina presto, senza avvertire neppure il rumore delle camionette, sentirono bussare alla porta: «C’erano le SS con i mitra in mano. Non mi ricordo se erano due o tre persone in divisa. Uno di loro aveva un foglietto».
Erano le istruzioni, in un italiano approssimativo, per i poveretti destinati alla deportazione: «1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti. 2. Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno otto giorni; b) tessere annonarie; c) carta d’identità; d) bicchieri. 3. Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personale, coperte; b) denaro e gioielli…». Da brividi, nella sua burocratica banalità assassina, il punto 4: «Chiudere a chiave l’appartamento e prendere con sé le chiavi».
«I nazisti avevano in mano gli elenchi di tutti gli ebrei di Roma, uno per uno, completi di indirizzo», scrive in Portico d’Ottavia 13: Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, la storica Anna Foa, «Avevano diviso la città in 26 zone “operative” e in ognuna di esse si sviluppava contemporaneamente la razzia, che aveva lo scopo di arrestare la maggior parte degli ebrei presenti in quel momento in città».
«Eravamo tutti e sei in casa: io, mio padre, mia madre e tre fratelli: Angelo, Mario e Graziella», racconterà Di Segni ad Alessandro Ferrucci, de Il Fatto, «si sono presentati e con una lista di nomi hanno iniziato a perlustrare le stanze, convinti che nascondessimo qualcuno. Dentro gli armadi, in soffitta, in cantina. Niente. C’eravamo solo noi, gli altri parenti erano scappati le settimane precedenti. Poi con il mitra dietro la schiena siamo scesi in strada e saliti sui camion».
Uomini, donne, vecchi, malati, bambini. Come quelli che, ammucchiati su due o tre camion, si conficcarono per sempre nella memoria di Fulvia Ripa di Meana, che quel 16 ottobre del ’43, come avrebbe scritto in Roma clandestina, stava passando in via Fontanella Borghese: «Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti e aveva bruciato nei loro occhi le lacrime infantili. Solo in fondo al camion, buttati su un’asse di legno, alcuni neonati, affamati e intirizziti gemevano pietosamente». Nella notte, a quei neonati, si sarebbe aggiunto il piccolo partorito nel Collegio Militare da Marcella Perugia. Rimasto senza nome.
Nessuno di quei bambini, come hanno ricostruito ne Il futuro spezzato / I nazisti contro i bambini Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida, tornò. Nessuno: ad Auschwitz «solo Fiorella Anticoli si salva, passando la “selezione”. Un anno dopo, nel novembre 1944, viene evacuata da questo campo e trasferita a Bergen Belsen. Sarà l’unica bambina ebrea italiana a sopravvivere a 18 mesi nei campi di sterminio. Alla liberazione di Belsen, il 26 aprile 1945, un soldato alleato scatta una fotografia di Fiorella in mezzo a un gruppo di ex deportati, e questa immagine fa il giro del mondo dei giornali: a Roma anche il padre, Marco Anticoli, la vede e comincia a sperare». Ma la piccola non ce la fa. E muore, «sfinita dai patimenti e dalla denutrizione», prima di abbracciare il padre, il 31 maggio 1945, nell’ospedale di Bergen Belsen. Lo stesso campo dove era morta Anna Frank.
Caricato sui vagoni piombati alla stazione Tiburtina, deportato con tutti gli altri ad Auschwitz e smistato infine nel «KL Warschau», il campo di concentramento di Varsavia, Lello Di Segni fu avviato a lavorare al recupero di quanto poteva essere utile ai nazisti tra le rovine di quello che era stato il ghetto della capitale polacca, ghetto devastato dopo un’eroica resistenza. Racconterà al nostro Paolo Brogi: «Mi avevano messo lì a scavare e mi ritrovavo tra le mani forchette, bicchieri, coltelli, oggetti di uso quotidiano che erano stati seppelliti insieme agli ebrei che li avevano usati…».
Solo quindici uomini e una donna tornarono dai campi di sterminio, come dicevamo, di tutti gli ebrei razziati quella mattina a Roma. Si chiamavano Michele Amati, Lazzaro Anticoli, Enzo Camerino, Luciano Camerino, Cesare Di Segni, Lello Di Segni, Angelo Efrati, Cesare Efrati, Sabatino Finzi, Ferdinando Nemes, Mario Piperno, Leone Sabatello, Angelo Sermoneta, Isacco Sermoneta, Settimia Spizzichino, Arminio Wachsberger. E ricordare i loro nomi, oggi che se ne sono andati tutti, è l’ultimo modo per rendere loro onore.