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 2018  ottobre 25 Giovedì calendario

Alla disfida dei Macchiaioli

Chi ha una certa confidenza con il mondo dei Macchiaioli, o ha frequentato qualche recente, assai frequente mostra su quel movimento prevalentemente toscano, o soprattutto si fida solo del proprio occhio, scavalcando le uggiose prediche della filologia, potrebbe anche rimanere legittimamente disorientato, da questo curioso accostamento tra il piemontese Fontanesi, la cosiddetta, regionale, Scuola canavesana di Rivara (con Avondo e Rayper) e i toscani della Scuola di Piagentina o di Castiglioncello. Come se le stesse luci e atmosfere regional-paesaggistiche, fossero in burrascosa belligeranza.
Staremmo quasi per dire, pedagogicamente, che sarebbe necessario davvero leggersi preventivamente i saggi in catalogo delle curatrici Cristina Acidini (pro domo Florentia) e di Virginia Bertone (in quota Pedemontana) per capire meglio questo accoppiamento (ad ampio raggio) poco o molto giudizioso, tra due mondi e due tradizioni, apparentemente in dissonanza. Basterebbe confrontare il «nordico» Mercato vecchio di Firenze di Fontanesi, che pare impregnato di acidi venosi e vinosi (che da Daumier ci portano fulmineamente verso il primissimo Picasso, barcellonese e toulouse-lautrecchiano), opposti ai blu turchesi e topazio-solari, mediterranei, di Sernari, Vito d’Ancona e Abbati (che dai colli di Piero della Francesca ci tradottano verso Maurice Denis e Cézanne). 
Chi mai ha sentito parlare del Piemonte, in effetti, nelle mappe della territorialità culturale dei Macchiaioli? Ma proprio per questo, la sfida va giocata, e deve partire dalla critica viva, «palpitante», che si fa Storia, imprescindibile. Anche perché dalla superficie glassata, e spesso anche un poco leccata, di certe visioni edulcorate ottocentesche, bisogna estrarre le viscere d’un mondo spesso violento, risentito, acceso di propositi e di sarcasmi. Ecco il racconto di una visita d’un protagonista, come il veronese Cabianca, alla Società Promotrice di Torino, intorno al 1860-63: «Mi trovavo in compagnia del mio carissimo amico e distinto artista Cristiano Banti. In una delle prime sezioni vedemmo alcuni lavori del compianto Massimo d’Azeglio. Per noi che appartenevamo al gruppo degli artisti (macchiaioli) che, in lotta con i vecchi metodi, sostenevamo il bisogno di una ricerca nell’arte, sembrò insopportabile il d’Azeglio» (che rappresenta la ormai vetusta e demonizzata pittura di storia e d’accademia, sia pure rinnovata). «Questa nostra opinione venne raccolta e commentata da un gruppo di persone (…) ammiratori del d’Azeglio, che se ne scandalizzarono. Successe che nel girare l’esposizione, tenuti d’occhio dal gruppo, dirò così, conservatore, c’imbattemmo nelle opere del Fontanesi, delle quali non ci trattenemmo dal dire molto bene, il che portò meraviglie ancora più grande nel rugiadoso gruppo. Allora mi venne in mente di proporre l’acquisto di un’opera del Fontanesi al Banti, per dimostrare simpatia a quell’originale, e per dare in certo modo una lezione a quei signori». 
C’è tutto, qui: un animus scapigliato; la vivezza dei contrasti umorali; l’odio per i dictat dell’Accademia, dannosi al germinare delle novità. E la sfida dell’unico artista benestante, che può comparsi un’opera. 
Di fatti, così replica lo stordito Fontanesi: «… mi è caro in ciò avere la Sua approvazione. Ciò mi fa dire però, mio caro signor Banti, ch’ella vuole assolutamente farsi lapidare a Firenze, dove i miei dipinti grazie a Dio sono stimati abbozzi informi, deplorabili aberrazioni della mente». Perché c’è un episodio significativo, che spiega questo astio, contro la città in cui è vissuto, reprobo. Quando il teorico della scuola macchiaiola ovvero Diego Martelli, ch’è stato a Parigi, a contatto con il nascente Impressionismo, non proprio gentile, nei confronti del Fontanesi, scrive: «Per la pittura di Figura (i nomi) ce l’ho, solo mi fan difetto la frutta e gli spinaci, e io domando una cattedra di paesaggio per il sig. Fontanesi, degente attualmente in Firenze, il quale sarà contentissimo di accettarla». 
Ecco: in questo senso va «letta» la ubertosa mostra della Gam, ove si contrappongono non solo le personalità pittoriche, ma anche scuole, gazzette, perfidie e solidarietà. E veri e propri «partiti» politico-artistici, in un frangente in cui si combattono tardo-romanticismo, purismo, macchia, tonalità sentimentale con origini ben distanti. Potremmo dire, con uno stornello goliardico da Caffè Michelangelo: siamo qui al cospetto d’uno strano presepe, per assistere al parto dell’arte moderna italiana, in presenza del «bove» Fattori e del ciuchino, o meglio dell’«asu» piemontese-nordico Fontanesi. Insieme al portoghese De Andrade (anche architetto eclettico) e a un poeta scapigliato, sensibile alla pittura, come Giovanni Camerana. La macchia serena contro lo sfumato del carboncino nero, temporalesco. 
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